Donna Lucrezia, la “dea” della Napoli aragonese che non diventò regina

Una piccola strada, una grande storia d'amore

L'Arco di Trionfo del Maschio Angioino
L'Arco di Trionfo del Maschio Angioino
di Vittorio Del Tufo
Domenica 31 Marzo 2024, 10:00
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«Tu m'e mise int'e vvene
nu veleno ch'è ddoce»

(Passione, Libero Bovio) 

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Una piccola strada, una grande storia d'amore: quella tra Alfonso d'Aragona e Lucrezia d'Alagno, la «favorita» del re. Lucrezia la «dominatrice», dalla grande «treza bionda» e i profondi «occhi negri», che aveva solo diciott'anni quando s'innamorò - o fece innamorare di sé, come malignamente si sottolineò all'epoca - il roccioso 53enne sovrano aragonese, già sposato con Maria di Castiglia, ma da lei separato da circa trent'anni. Lucrezia cantata dai poeti e celebrata dai cronisti della Napoli del '400, che per evitare guai ne decantarono le virtù, e furono concordi nel ritenerla una «vergine incontaminata», che amava il suo sovrano di un «casto amore». Casto o non casto, quell'amore per anni fu sulla bocca di tutti. «Ogni volta che sorgerà il sole, ogni giorno che terrà vivrà, tu sarai la regina» ripeteva Alfonso a madama Lucrezia, che divenne la musa di poeti e buffoni di corte, sempre pronti ad adularla, incensarla e celebrarla per adulare, attraverso lei, il temuto sovrano. «Digna è questa perla esser signora de l'antica Grecia/Non so se dico Dea over Lucrezia».

La strada che porta il suo nome - via Lucrezia d'Alagno - si trova nei pressi di piazza Grande Archivio, a poca distanza da piazza Nicola Amore e nel cuore dell'antico pianoro di Neapolis, dove, a strapiombo sulla spiaggia, si stagliavano le alte Mura di difesa della città. 

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Gli Alagno erano una antica famiglia, di origine amalfitana, trasferitasi a Napoli per motivi d'affari.
Possedevano alcune terre a Torre del Greco. Quando la scintilla tra donna Lucrezia e il re Magnanimo scoccò, Alfonso aveva probabilmente rinunciato all'idea di innamorarsi ancora.

«Qualcosa di nuovo era entrato nella vita del conquistatore di Napoli, del re Alfonso d'Aragona. Qualcosa di radioso e affascinante, di dolce e di voluttuoso, che si insinua dappertutto», scrisse Benedetto Croce nelle sue Leggende. Ed è probabilmente una leggenda quella secondo la quale a far scoccare la scintilla tra Alfonso e Lucrezia fu un alfonsino, la moneta d'oro con l'immagine del re stampata sulla testa. Era il 23 giugno del 1448: la vigilia della festa di San Giovanni Battista. Come da tradizione, i nobili e il popolino si riunivano in quella strada per onorare il santo. Alfonso quel giorno passeggiava per il centro della città accompagnato da alcuni cortigiani, e Lucrezia - figlia di un possidente, messer Cola d'Alagno - giocava con le sue amiche. La tradizione voleva che durante la festa, dagli antichi retaggi pagani, le fanciulle nubili offrissero pianticelle d'orzo e di grano, ricevendo in cambio un'offerta. La giovane dama offrì la sua piantina anche a un distinto uomo sulla cinquantina, inchinandosi al suo passaggio. Era il re, ma non lo riconobbe. Alfonso si accorse invece della bellezza della ragazza e, restandone folgorato, le donò una borsa colma di monete d'oro, i cosiddetti alfonsini. «La ringrazio di cuore - esclamò la fanciulla - ma me ne basta uno». Non si lasciarono più.

Lucrezia e re Alfonso si amarono felicemente per circa un decennio e soltanto la morte di lui interruppe quella passionale relazione, a cui la intransigente opposizione papale aveva negato il sacro vincolo del matrimonio. Così, approfittando dell'amore di re Alfonso, la dea Lucrezia accumulò beni e ricchezze, ma non poté coronare il sogno di diventare regina. Dopo la morte di Alfonso, Lucrezia fu prima in buoni rapporti con il figlio Ferrante d'Aragona, ma poi i rapporti si guastarono a tal punto che lei andò via da Napoli e girovagò senza meta, prima per l'Italia e poi per la Dalmazia, finché si trasferì a Roma dove morì nel 1479.

Il celebre arco di Trionfo posto all'ingresso di Castel Nuovo, uno dei gruppi marmorei più spettacolari della città, raffigura l'ingresso trionfale di Alfonso d'Aragona a Napoli, avvenuto nel 1442. Alfonso, che entrò in città attraverso un passaggio sotterraneo dell'antico acquedotto, è portato in trionfo come un imperatore romano, circondato da paggi e vittorie alate, putti e cornucopie, notabili e dignitari, nonché da bande di musicanti. In quel corteo festante e straordinario, interamente composto da uomini, compare solo una donna, immortalata per sempre e da allora per sempre scolpita nella nostra memoria. «È Lucrezia d'Alagno, o forse Partenope rivestita della corporea figura di Lucrezia, quella donna dalle labbra carnose, dal profilo classico e adorna di una collana di pietre preziose, che precede il carro trionfale e par che gli additi la via da seguire» (Croce, Storie e leggende napoletane). 

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Siamo a poche decine di metri da piazza del Grande Archivio, al centro della quale c'è la splendida Fontana della Sellaria eretta nel 1649 a spese del popolo della contrada Pendino. In origine l'opera si trovava in piazza della Sellaria, in corrispondenza dell'attuale piazza Nicola Amore. Da lì fu poi rimossa durante i lavori per il Risanamento e rimontata, nel 1903, al centro della piazza Grande Archivio dove oggi si trova. Siamo fuori le mura di Neapolis, sulla antica fascia costiera sabbiosa. In età greca questa zona era vicinissima al mare, tra l'antica linea di costa e il circuito murario. Oggi il mare è arretrato di parecchie decine di metri rispetto al passato. La toponomastica di questa zona della città è legata alle attività artigianali che vi si svolgevano. Via Lucrezia d'Alagno è tagliata perpendicolarmente da via Ferri Vecchi, una delle strade più antiche di Napoli, chiamata così perché fino al 600 qui avveniva il commercio dei ferri vecchi poi trasferitosi a piazza Mercato. Il nome primitivo della via era Torre delle Fèrule, per la vicinanza di un torrione delle mura di cinta, che era tutta coperta da una pianta sempreverde detta appunto Fèrula.

Via Duomo corrisponde invece all'antica platea Cimbrum, o Cardo Maior come viene chiamata da Bartolommeo Capasso, che ne deduce il nome da antichi documenti di età medioevale. Questa strada è stata sventrata ed allargata sul versante est dopo l'Unità di Italia alla fine dell'800, ma la necessità di creare un collegamento più comodo tra via Foria e via Marina si era sentita già durante il regno di Ferdinando II di Borbone nel 1839 quando fu presentato un progetto di ampliamento della strada elaborato da Federico Bausan e Luigi Giordano. Ma solo nel 1861 iniziarono i lavori per il tratto che andava da via Foria fino al Duomo. Nel 1870 poi fu prolungata sino a via Vicaria Vecchia e in seguito, nel 1880 fu approvato l'ampliamento sino a via Marina che fu completato con le opere del Risanamento.

Via Eletto Starace, invece, richiama uno degli episodi più cruenti della tumultuosa vita della città. Nel 1585 la sciagurata decisione del viceré, il duca di Ossuna, di esportare il grano napoletano in Spagna, con il conseguente aumento del prezzo del pane, provocò una drammatica carestia che sfociò in una violenta insurrezione, la quale ebbe il suo culmine il 9 maggio con il linciaggio dell'Eletto del popolo, Giovanni Vincenzo Starace, colpevole di non aver tutelato gli interessi del popolo. 

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