Il romanziere del popolo e un cadavere imbalsamato: il giallo è nato ai Quartieri Spagnoli

Il tema della morte apparente in uno dei romanzi più inquietanti di Francesco Mastriani

È giallo nei Quartieri Spagnoli
È giallo nei Quartieri Spagnoli
di Vittorio Del Tufo
Domenica 10 Marzo 2024, 10:00
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«Io non so perché, m'immagino che morrò di morte apparente, e che sarò tratto alla tomba ancor vivo!»

(Francesco Mastriani, Il mio cadavere). 

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Era il dicembre 1851 quando, con dispense a puntate, sulla rivista Omnibus, faceva la sua comparsa un lungo racconto ambientato tra Napoli e la Germania venticinque anni prima. Era una storia cupa, angosciante, e raccontava le vicende - la rapida ascesa e la drammatica caduta - di un giovane pianista napoletano, Daniele De Rimini, trovatello sottratto alla fame e alla morte da uno stradiere, Giacomo Fritzheim, il quale lo crescerà amandolo come uno dei suoi figli. L'autore era tanto creativo e fertile quanto bistrattato dalla cultura ufficiale del tempo. Si chiamava Francesco Mastriani e quello che diede alle stampe, 173 anni fa, è considerato il primo romanzo noir scritto in Italia.

Quel libro, a lungo introvabile nella versione originale, si chiamava Il mio cadavere ed è stato recentemente ripubblicato dall'editore Polidoro. Sono in tanti, oggi, a pagare un debito di riconoscenza nei confronti di Francesco Mastriani, autore di una produzione letteraria sconfinata: 105 romanzi e 263 tra novelle e racconti. Dieci anni prima, nel 1841, aveva fatto la sua comparsa il primo racconto poliziesco della storia della letteratura: I delitti della rue Morgue, di Edgar Allan Poe, ambientato a Parigi. Con Poe irrompe sulla scena il personaggio del detective criminologo Auguste Dupin, antesignano della nutrita schiera di investigatori deduttivi che vedrà in Sherlock Holmes e Hercule Poirot i suoi campioni più rappresentativi.

A differenza della rue Morgue - che non esiste - i vicoli dove Mastriani ambienta il suo giallo-noir esistono e sono riconoscibilissimi: i vicoli più sordidi e bui della città. La toponomastica dei luoghi, come quella dell'animo umano, in Mastriani è sempre esatta. Le voci «di donne e di fanciulli» e il pianto «che parea di disperazione» proiettano immediatamente il lettore davanti a un «povero, diruto abituro» di via Santa Maria degli Angeli alle Croci, a ridosso del Real Albergo dei Poveri (vedi Uovo di Virgilio del 9/10/22).

 

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Lui, Mastriani, era nato invece ai Quartieri Spagnoli, e più esattamente in Vico Figurelle a Montecalvario 10. Fu definito narratore del popolo, perché del popolo raccontava la miseria e gli affanni, gli sfinimenti e gli abissi, e ogni volta che c'era da affondare le mani nel fango, nella melma, nella putredine urbana lui le affondava, facendosi portavoce degli ultimi e dei deleritti. Sullo sfondo della Napoli del 1826, Il mio cadavere racconta, in un intreccio fittissimo, le vicende di quattro persone, protagoniste di vicende amorose e nere, che hanno in comune il legame con un cadavere. Uno di essi è il giovane pianista Daniele de' Rimini, al quale il nevrotico nobile in esilio a Malheim proporrà uno stranissimo patto: appena il conte sarà morto, Daniele farà imbalsamare il suo corpo depositandolo in una camera cerimoniale. Il musicista diventerà così il custode della mummia. E quella mummia diventerà la sua rovina.

C'è un'immagine che risalta, tra le tante che compongono l'affresco gotico de Il mio cadavere. È l'immagine che si fissa, come un mastice, nella mente di uno dei protagonisti, Edmondo Brighton, conte di Sierra-Blonda, ricco e assai dissoluto nobile inglese. Costui, ormai sulla soglia della vecchiaia, si ritira a Malheim, in Germania, per godersi in un posto tranquillo, dove non è conosciuto, le sue immense ricchezze. Il conte, divorato dal rimorso per i crimini commessi in passato, cade però in preda a un pensiero terribile, di cui non riesce a liberarsi: più che la morte, teme il suo stesso cadavere; teme, soprattutto, di essere sepolto vivo. «Io non so perché, m'immagino che morrò di morte apparente, e che sarò tratto alla tomba ancor vivo!». Se il suo capolavoro è considerato, probabilmente a ragione, La cieca di Sorrento, Il mio cadavere è certamente uno dei testi più innovativi di Mastriani. Cupo e terribile.

Siamo nei territori di Poe, di Stevenson, dei capolavori del genere gotico. Siamo tra le inquietanti pagine di un autore a lungo sottovalutato ed emarginato dal dibattito culturale. Eppure se c'è un romanzo che svela la potenza narrativa di Mastriani, considerato da Matilde Serao il precursore della narrativa di denuncia, quel romanzo è proprio Il mio cadavere. Mastriani, nato a Napoli nel 1819, riuscì per sua e nostra fortuna a volare oltre i recinti nei quali la società letteraria del tempo tentò di rinchiuderlo. Fu un padre nobile del giallo, ma gettò anche le basi per la nascita del verismo - ebbe a modello l'opera di Eugène Sue, l'autore de I misteri di Parigi, prese spunto anche dalle cronache parigine di Balzac - e contribuì alla nascita del meridionalismo. Insomma, se la Francia ha Zola, Napoli ha Mastriani. Fu lo stesso Mastriani, polemicamente, a rivendicare la sua piena appartenenza al verismo, movimento letterario nato in Italia all'incirca fra il 1875 e il 1895 ad opera dei siciliani Giovanni Verga e Luigi Capuana con la collaborazione di altri scrittori. Gli strali di Mastriani erano indirizzati soprattutto contro i colleghi d'Oltralpe, a cominciare dall'autore di Nanà, Émile Zolà. «Che cosa è mai cotesto rumore che si leva intorno al realismo? Il realismo l'ho inventato io. Che è cotesta Nanà, che tutto il mondo n'ha da discorrere come l'ottava meraviglia? Io ho scritto "I vermi". C'è niente di più realista dei vermi? Io vi domando in coscienza se si può scendere più basso. Di più, voi, realisti da strapazzo, sguazzate nel sudiciume; ed io, come vedete, vi servo in tavola l'anima stessa del medesimo in tante pagine strappate dall'albero della mia fantasia ancora verdi e sanguinanti».

Il papà del giallo-noir napoletano (e italiano) mostrò fin dagli esordi letterari grande attenzione soprattutto nei confronti degli ultimi, dei disperati, dei deleritti. Mastriani, che definiva studi i suoi romanzi dal forte contenuto sociale, da I vermi a I misteri di Napoli, mostrava, come osservò Benedetto Croce, «vivo sdegno contro gli oppressori e pietà per le vittime». Quando il «narratore del popolo» morì, nel 1891, la Serao, che proprio quell'anno aveva pubblicato Il paese di cuccagna, gli dedicò un articolo commemorativo facendo riferimento alla sua «totale indipendenza» dai circoli accademici e artistici.

 

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Mastriani attingeva continuamente dalla cronaca, dalla vita vissuta, i materiali per i suoi racconti. Senza esitare, quando li conosceva, a chiamare i suoi personaggi con i loro veri nomi e cognomi. Questa l'epigrafe scritta per lui dal filosofo Giovanni Bovio, padre del grande poeta Libero, impressa su una lapide di marmo che venne poi murata su una parete dell'atrio del teatro San Ferdinando: «Curò le ultime bozze e chinò il capo sugli scritti. Fu l'individuazione di questo popolo napolitano: lavorare e sognare, soffrire pazientemente e morire. S'intendevano l'un l'altro; egli aveva visitato l'ultimo tugurio, e il popolo si riconosceva in lui. In altro paese sarebbe divenuto ricco; ma l'Italia, povera come lui, non merita rimprovero». A Mastriani è intitolato un vicolo in una traversa di via Tanucci, vicino piazza Carlo III, e una scuola media in via Poggioreale. 

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