Napoli, la dea dei misteri:
San Giovanni Maggiore
e l'enigma delle lapidi

Napoli, la dea dei misteri: San Giovanni Maggiore e l'enigma delle lapidi
di Vittorio Del Tufo
Domenica 6 Marzo 2022, 11:34 - Ultimo agg. 7 Marzo, 12:20
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«È per questo che le sirene seducono, non solo per ciò che fanno udire, ma per ciò che brilla nella lontananza delle loro parole» (Michel Foucault). 

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Dalle profondità della terra al cielo sopra Partenope, dalle viscere di Neapolis al pantheon degli dei. C'è una chiesa, nel cuore di Napoli magica, dove tutto si confonde: il mito e la storia, l'arte e la religione, i culti misterici e le ricerche archeologiche. È la basilica di San Giovanni Maggiore e sorge nel luogo esatto dove, sin dall'antichità, i napoletani veneravano la loro Sirena: Partenope, genius loci, creatura fantastica e mito fondativo della città.

A Partenope - lo scrigno-madre, demone marino o uccello antropomorfo, umanizzata al punto da morire per amore e per questo simbolo di un destino tragico - i fondatori della città dedicarono un grande sepolcro, oggi perduto, che infiamma da sempre la fantasia degli storici, degli archeologi e dei poeti. Fior di studiosi si sono interrogati a lungo sull'esatta ubicazione di questo sepolcro. Bartolomeo Capasso, cantore della Napoli greco-romana, lo collocò nel sito piu alto della citta e quindi a Sant'Aniello a Caponapoli, sulla sommita di via del Sole, presso l'antico Tempio della Fortuna. Il grande archeologo Mario Napoli, giudicando che quel sepolcro dovesse essere anteriore alla fondazione di Neapolis, ritenne invece che la tomba di Partenope dovesse trovarsi presso il mare, ai piedi della città vecchia, Palepoli, e quindi nei pressi dell'attuale teatro San Carlo. Un'altra traccia, la più affascinante, porta invece nel luogo dove sorgeva l'antico tempio di Antinoo, voluto dall'imperatore Adriano e poi distrutto da Costantino.

E dove una strana lapide accoglie da centinaia di anni i visitatori. La memoria dei luoghi è ciò che da sempre attira la nostra attenzione. Anche la basilica di San Giovanni Maggiore, al centro in passato di straordinari ritrovamenti archeologici - come la testa della statua di Antinoo commissionata dall'imperatore Adriano, o le due tavole dell'antico calendario della chiesa napoletana, incise nell'887 ed ora conservate nell'arcidiocesi di Napoli - è un luogo della memoria, intimamente connesso al nume tutelare della nostra cultura: la sirena Partenope. Dev'essere per questo che Lello Esposito, artista che da anni lavora, per rinnovarli, sugli archetipi culturali della tradizione partenopea, ha scelto tra tante chiese proprio questa basilica, dalle incredibili sedimentazioni storiche, per realizzare la sua Scultura di Partenope, presentata nei giorni scorsi. Un'opera che rende omaggio all'antico culto della Sirena ma anche alle statue greche che, prive di gambe e braccia, concentravano nel volto la loro carica espressiva e comunicativa. Ma qual è il filo che lega questo antico luogo di culto, edificato sulle macerie del tempio di Antinoo, alla memoria e ai segreti di Partenope?

La risposta è in una misteriosa lastra tombale, che custodirebbe il segreto del sepolcro perduto. Una lapide che reca un'epigrafe, una strana scritta in latino, che appassiona da sempre gli storici e gli archeologi.

OMNIGENUM REX AITOR
SCS + IAN
PARTENOPEM TEGE FAUSTE

«Una preghiera esortativa tipicamente pagana», annota Maurizio Ponticello, studioso della Napoli dai mille veli. La traduzione più attendibile - ma sono sorte dispute raffinatissime tra gli accademici - dovrebbe essere: «Creatore di tutte le cose, Altissimo, proteggi felicemente Partenope». Le due frasi sono separate da una croce iscritta in un cerchio tra le parole Scs e Ian: un'invocazione rivolta a Scs Ian, ovvero a San Gennaro, affinché proteggesse il sepolcro di Partenope? Solo ipotesi e congetture destinate a restare forse per sempre senza risposta.

Ma cosa ci fa questo retaggio di un antico rito pagano - il culto di Partenope - in una chiesa cristiana? Siamo nel cuore della leggenda: qui i napoletani ritenevano che fosse sepolta Partenope, la sirena che si lasciò morire dopo essere stata rifiutata da Ulisse, la creatura cui il mito attribuisce la fondazione di Napoli. Qui, nel tempio pagano che venne convertito in basilica da Costantino nel quarto secolo dopo Cristo, i napoletani vedevano la Sirena, invocandone la protezione.

Può esistere una tomba di Partenope? Ovviamente no, trattandosi di un essere mitologico. Eppure qui, a due passi dal mare cha bagnava Napoli, esattamente nel punto dopo si trova la lapide con l'epigrafe scritta con caratteri romani intorno a una croce, i napoletani ritenevano che Partenope fosse sepolta. E continuarono a crederlo anche dopo la nascita della basilica paleocristiana.

Parthenopem tege fauste.

Se il busto della Sirena è un omaggio alle statue greche, il suo volto è un tributo - spiega Lello Esposito - alla Capa e Napule, la celebre scultura di epoca classica oggi conservata sulla scalinata di Palazzo San Giacomo e la cui identità ha infiammato da sempre la fantasia dei napoletani. È lei, Partenope, che disperata per non aver saputo ammaliare Ulisse di ritorno da Troia, si dissolse prendendo la forma della città? Un mito, il nostro mito fondativo che Lello Esposito insegue, però rivitalizzandolo, innervandolo nel corpo vivo della città. Chi vive d'arte sa bene che il mito non è mai distante dalla realtà, ma è il soffio poetico che la anima dall'interno. Così Lello Esposito ha scelto di installare la sua scultura proprio accanto alla lapide che rappresenta la tomba della Sirena, nel luogo dove l'imperatore Adriano innalzò un tempio al suo amato Antinoo. Un luogo meraviglioso della città, dove cultura pagana e cultura cristiana si fondono e convivono come solo a Napoli poteva avvenire.

La Sirena è una delle figure mitologiche più longeve, il cui fascino «identitario e seducente - lo ha spiegato bene l'antropologa Elisabetta Moro nel saggio Sirene, la seduzione dall'antichità a oggi - si concentra nella voce e nell'abilità ad usarla per attrarre gli uomini verso una conoscenza completa e illimitata». Nel loro lungo viaggio verso l'ignoto queste figure hanno cambiato più volte sembianze. Partenope ricompare in forma di uccello nella cinquecentesca fontana di Spinacorona, mentre con il suo latte spegne l'eruzione dell'intemperante Vesuvio; ma quando la sua immagine viene scolpita nel basamento della guglia di San Gennaro o in quello del guglia di San Domenico, la Sirena ha definitivamente conquistato le fattezze della donna pesce.

«Il tempo è cambiato - spiega Francesca Amirante, storica dell'arte e appassionata divulgatrice del nostro patrimonio cultiurale - e le ali non sono più concesse alla nostra Partenope perché attributo consentito solo alle schiere angeliche. Le grandi ali della Sirena sono proprio come quelle degli Angeli destinati, tra gli altri compiti, a trasportare i pesanti corpi delle anime del Purgatorio innanzi alla Madonna che doveva dare il suo assenso per l'ingresso in Paradiso!».

Per i napoletani, anche quelli che non lo danno a vedere, il mito di fondazione si è sempre coniugato con un forte senso di appartenenza: Partenope, la dea dei misteri, è da sempre il mito che fa da cemento alla memoria collettiva di un popolo. Anche quando la sirena che ha dato il nome alla città si è innervata in altre figure femminili, dalla dea egiziana Iside alla santa cattolica Patrizia. Anche quando il mito di Partenope si è trasferito nel grande Virgilio Mago e, di culto in culto, di incantesimo in incantesimo, nel santo patrono della città, Ianuarius. «Numerose, sempre nuove sono le facce con cui Partenope si mostra», come ha scritto Francesco Palmieri nel libro L'incantevole sirena.

Tra tanti misteri, l'unica certezza è che dalla Sirena Partenope in poi, Napoli è una città in cui anche le favole danno il nome ai luoghi. Matilde Serao, che lo sapeva bene, di quelle favole e di quei luoghi cercò gli echi e le tracce, regalandoci un libro di immaginazione e di sogno che racconta meglio di tanti altri le gioie e i dolori, le passioni e gli amori, ma anche l'energia misteriosa e gli infiniti sfinimenti di un popolo e di una città. Così, con un certo tono perentorio, affermò nella prima novella delle sue Leggende napoletane:

Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. 

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