I Monti e la città segreta:
il Paradiso di Viviani
affaccia sull'inferno

I Monti e la città segreta: il Paradiso di Viviani affaccia sull'inferno
di Vittorio Del Tufo
Domenica 11 Aprile 2021, 10:29 - Ultimo agg. 14 Aprile, 06:30
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«Nu vecariello: case sgarrupate,
spurcate e stunacate tutt' e mure.
For' e pputeche vólleno e pignate,
passano e voce e tutte e venneture».
«'O Vico e Mast'Errico»

(Raffaele Viviani)

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Per Raffaele Viviani il grande frutteto che un giorno avrebbe preso il suo nome era o ciardiniello. Ne era a tal punto innamorato da definirlo «n'angulo e Paradiso sciso nterra». La sua casa al corso Vittorio Emanuele 386 - nello stesso palazzo dove abitò Amedeo Bordiga, comunista ribelle e nemico di Stalin nell'Italia di Mussolini - affacciava su una vasta oasi verde nel cuore della città, dove sorgevano enormi spelonche di tufo utilizzate in passato come cave: le mitiche grotte scavate nei Monti tra il Vomero e Montesanto. Monti che hanno dato il nome a strade, vicoli, alberghi, scalinatelle, viottoli incassati nel ventre di tufo della città. Monti che davano da vivere ai cavaloli, di cui è rimasta traccia nella toponomastica di Montecalvario.

Era, quell'oasi verde, o ciardiniello citato nella lapide posta all'ingresso del parco intitolato al grande drammaturgo, il Parco Viviani appunto, un «Paradiso in terra» recuperato in parte ma per larghi tratti ancora murato, sventrato, popolato dal demone dell'abbandono, che fa marcire i luoghi e riduce in cenere la nostra memoria.

Del giardino di delizie tanto caro all'autore di Bammenella oggi la parte irriconoscibile, ancora sottratta ai cittadini del quartiere Avvocata che da anni si battono per il suo recupero, è proprio quella delle grotte tufacee, utilizzate in tempo di guerra come ricovero antiaereo e in seguito diventate deposito di materiali edili, in alcuni casi addirittura murate. Sui gradoni della scalinata di salita Sant'Antonio ai Monti un cancello socchiuso e incustodito conduce al cuore dello scempio: è la parte bassa, meno fortunata anche se non meno nobile, del Parco Viviani, ventimila metri quadri, istituito nella seconda metà degli anni Ottanta a seguito dei lavori di ricostruzione post-terremoto. Il parco, che segue il declivio naturale della collina, è dotato di tre ingressi ma al momento è fruibile solo quello su via Girolamo Santacroce, chiuso per molti anni e restituito alla città solo di recente. Qui il panorama, una volta raggiunta la cima, diventa mozzafiato: Sorrento, il Vesuvio, Capri, i Campi Flegrei, Procida e Ischia stretti in un unico grande abbraccio.

Salita Sant'Antonio ai Monti, invece, sbuca nella savana. S'inerpica fino al Vomero tra scorci di bellezza rovinati dal degrado. Dei giardini tanto amati dal poeta restano cicatrici di tufo, masserizie abbandonate, vegetazione incolta, sterpaglie, cancelli arrugginiti. Scheletri di un mondo in disarmo. Questo lato del parco intitolato al celebre drammaturgo è figlio di un dio minore. I cancelli esterni si sono trasformati in un enorme ricettacolo di rifiuti dove, di tanto in tanto, vengono sversate persino le carcasse di scooter o elettrodomestici. Altro che «ciardiniello»: a causa del proliferare degli insetti i residenti della zona sono costretti a mettere in pratica interventi di potatura «fai da te» per non vedersi invadere dai rami degli alberi che, nelle giornate di vento, ondeggiano pericolosamente.

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I Monti che danno il nome alla salita - spezzati, alla metà del XIX secolo, dall'avanzata trionfale del Corso Vittorio Emanuele voluto da Ferdinando II di Borbone - sono il ventre della città, budelli di pietra vulcanica ai confini di molti quartieri, l'Avvocata, Montecalvario, la zona dei Ventaglieri. Sant'Antonio ai Monti, al limite ovest dell'antico quartiere del Limpiano, s'inerpica verso il Vomero fino a congiungersi, anzi a trasformarsi in via Cacciottoli. Era, originariamente, un alveo naturale. Al pari di via Ventaglieri, salita Tarsia, salita Pontecorvo e del Cavone, anch'essa era deputata al convogliamento a valle delle acque meteoriche e delle «lave», ovvero dei detriti trasportati dalla poggia in quelle che anticamente erano strade di campagna.

Prima che il corso Vittorio Emanuele stravolgesse, nell'Ottocento, la scenografia urbana - collegando la zona occidentale e quella orientale della città con quella che a pieno titolo può essere considerata la prima vera Tangenziale di Napoli - la salita di Sant'Antonio ai Monti svolgeva una strategica funzione di collegamento verticale (oggi interrotto) tra i rioni storici e popolari di Montesanto, Olivella e Quartieri Spagnoli e la collina del Vomero. Lo stesso Parco Viviani, come sanno bene i cittadini che da anni si mobilitano contro il degrado, non è soltanto un polmone verde da salvaguardare e «rigenerare», ma anche uno straordinario canale di comunicazione tra il centro e la collina, in una logica di valorizzazione di quella «città verticale» che fa parte della nostra storia e della nostra cultura.

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Fino ai primi anni 80, quando prese forma l'idea di realizzare il Parco Viviani nell'ambito degli interventi post-terremoto, la zona era infestata dai rovi; gli ippocastani e le altre piante da frutto soffocati dalla vegetazione selvaggia. Nel 1982 le prime ispezioni, condotte da Clemente Esposito, grande esploratore del sottosuolo napoletano e presidente del Centro Speleologico Meridionale. «Armati di macete aprimmo dei sentieri tra i rovi e trovammo le prime grandi cavità, alcune delle quali chiuse con grossi blocchi di cemento, tra Sant'Antonio ai Monti, Salita Cacciottoli e via Cupa Vecchia. Una notte ci calammo per 35 metri in una gigantesca cavità e vi restammo fino al pomeriggio del giorno successivo. Cominciarono i lavori, si disboscò la zona di Via Girolamo Santacroce e vennero alla luce i ruderi di antichi casali. Furono aperti ampi sentieri e si costruì il Parco Viviani che fu anche collegato con le cavità di Via Sant'Antonio ai Monti, sì da mettere in comunicazione via Girolamo Santacroce con Corso Vittorio Emanuele. Il parco venne affidato, in una prima fase, all'editore Attilio Wanderlingh».

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Raffaele Viviani, che aveva debuttato nel 1892, a quattro anni e mezzo, in un teatrino di marionette a Porta San Gennaro, si perdeva spesso nell'indolenza del paesaggio che poteva ammirare dalla sua casa del corso Vittorio Emanuele. Nel suo studio affacciato sul verde custodiva tre oggetti di grande valore simbolico: la sua testa scolpita da Gemito, le foto con l'autografo di Petrolini e un busto di Petito. «Il ritratto di Gemito come segno dell'avvenuto successo (anche per quello che era costato); la foto di Petrolini, amico fraterno dall'epoca dei difficili inizi, come testimonianza dei sacrifici e delle lotte che quel successo era costato; il busto di Petito, nume tutelare e padre nobile, come solido ancoraggio alla tradizione»

(G.Longone, Una riflessione e cinque episodi, in AA.VV. Viviani, Tullio Pironti editore 2001).

Quando usciva di casa, Viviani si intratteneva spesso nei dintorni del «ciardiniello». Mimì Rea - altro grande scrittore di cui quest'anno ricorre il centenario della nascita - lo incontrò una volta e lo descrisse «alto, secco legnoso, pelle e ossa, il volto asciutto, il naso camuso, la bocca svasata, gli occhi come un po' strabici, i capelli ricciuti e lanosi. Era elegantissimo in papillon, fazzoletto nel taschino e scarpe bianche e nere. Camminava con aria guappesca, ma era lo stesso un triste e nobile signore plebeo» (vedi Carlo Raso, Golfo di Napoli, Guida letteraria). L'autore della Rumba degli scugnizzi non poteva certo immaginare che un giorno sarebbe diventato il genius loci di quel tratto di Corso, e di quel parco - oggi per metà affacciato sul Paradiso, e per l'altra metà ridotto a discarica - che porta il suo nome.

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