L'urlo degli uccelli neri e l'inno a Santa Chiara dopo il buio della guerra

L'urlo degli uccelli neri e l'inno a Santa Chiara dopo il buio della guerra
di Vittorio Del Tufo
Domenica 5 Gennaio 2020, 18:00 - Ultimo agg. 6 Gennaio, 11:54
5 Minuti di Lettura
Dimane? Ma vurria parti' stasera
luntano, no... nun ce resisto cchiù'
dice che c'è rimasto sulo o mare
che è o stesso e primma
chillu mare blu...

* * *

Tra i primi a vedere gli Uccelli Neri cadere su Spaccanapoli vi fu Benedetto Croce. Il grande filosofo aveva 77 anni e dalla terrazza della sua casa di Sorrento guardò con orrore i bombardieri americani e inglesi vomitare il carico di morte su Santa Chiara, la sua Santa Chiara, pietra della memoria tra le «vetuste fabbriche» nel cui grembo era «dolce sentirsi chiusi», quasi come il ritrovarsi «nella casa dove vivemmo la nostra infanzia». Era il 4 agosto 1943. Quarantotto ore dopo il bombardamento, la fabbrica di Santa Chiara bruciava ancora. E bruciava il cuore di don Benedetto, il cuore di tutti i napoletani. Tutto perduto: gli ori, gli stucchi, le tele. Gli splendidi affreschi barocchi e gran parte di quelli, giotteschi, eseguiti durante l'edificazione della chiesa - voluta nel 1310 da Roberto d'Angiò e sua moglie Sancia di Maiorca - di cui non si salvarono che pochi frammenti.

Roma, due anni dopo. Il musicista Alberto Barberis si presenta sotto l'abitazione del paroliere e commediografo Michele Galdieri, napoletano da tempo trasferitosi nella capitale, figlio del famoso poeta Rocco. Barberis ha con sé una melodia struggente, che al paroliere fa pensare subito a un grido di dolore e di paura. «Vidi arrivare a casa mia Barberis - racconterà Galdieri - recando sotto il braccio quelle note che stillavano pianto. M'innamorai della musica appena la sentii, e di getto volli dedicarla al monastero di Santa Chiara, che sorge proprio di fronte al liceo Genovesi, dove avevo trascorso gli anni della giovinezza. Avevo saputo che una bomba si era abbattuta su Santa Chiara e mi faceva male il cuore».

Dalla tragedia del 4 agosto 1943, e dall'incontro dei due talenti, nascerà uno dei brani più struggenti del repertorio napoletano. I versi di Galdieri danno voce al desiderio e all'angoscia di un emigrante che desidera fortemente tornare a Napoli ma teme di trovare, al suo rientro, una città sventrata non solo negli edifici ma anche nell'anima. Sono versi nostalgici e sanguinanti.

* * *

In quell'agosto del 43 altri due testimoni d'eccezione si affacciano tra le rovine fumanti di Spaccanapoli. Il primo è il futuro storico Giuseppe Galasso, che allora abitava in via Montesanto. Galasso corre con alcuni amici all'incrocio con Trinità degli Spagnoli, trova la strada sbarrata. «Ricordo i pompieri che spegnevano l'incendio e moltissimi soldati. Non so perché, c'erano anche tanti marinai» 
La Repubblica, 3 agosto 2003, articolo di Stella Cervasio). Il secondo testimone è Roberto De Simone, che alla tragedia di Santa Chiara dedicherà una delle pagine più intense del suo Satyricon a Napoli 44: «La facciata della costruzione conventuale si ergeva grottescamente tra i ruderi medievali di nude pietre, fra travi e avanzi di affreschi eseguiti dagli allievi di Giotto». Lo sguardo di De Simone, testimone di quei drammatici avvenimenti, si allarga all'area circostante: «L'ala sinistra della chiesa del Gesù mostrava l'ampia ferita per il crollo della parete che sosteneva l'altare di San Francesco Saverio; la scuola Pimentel Fonseca e la Salvator Rosa erano quasi rase al suolo; e una parte del principesco Palazzo Pignatelli risultava squarciata triangolarmente, lasciando in mostra con involontario cinismo una lapide attestante che in quella residenza aveva soggiornato il pittore Edgar Degas. La superstite memoria sembrava testimoniare il passato di un crepuscolare tempo incapace di immaginare l'apocalisse cui eravamo sopravvissuti».

* * *

Munasterio e Santa Chiara, tengo o core scuro scuro...
Per la verità, il fuoco delle fortezze volanti aveva cancellato il profilo gotico della chiesa, mentre il monastero era stato risparmiato. Il titolo della canzone aveva esteso al convento, indenne, le rovine della basilica. Il brano fu lanciato nel 1945 da Giacomo Rondinella nella rivista teatrale Imputati, alziamoci! di Michele Galdieri. Il successo fu immediato: quello stesso anno, la canzone fu presentata dalle edizioni musicali La Canzonetta alla Festa di Piedigrotta, con l'interpretazione di Ettore Fiorgenti, e poi incisa più volte negli anni successivi. Il musicista Barberis, che grazie a Galdieri aveva associato il proprio nome alle macerie di Santa Chiara, morì qualche anno dopo in Argentina, sepolto da altre macerie: quelle di un terremoto!

Se le città sono un paesaggio dell'anima, è l'anima di Napoli che l'anonimo emigrante della canzone di Galdieri e Barberis teme di non ritrovare più, sepolta tra le rovine degli edifici distrutti dai bombardamenti. L'emigrante sa bene che la sua città è stata terribilmente provata dalla guerra. Ma il suo timore più forte e che i cittadini abbiano perduto anche la loro vera e proverbiale ricchezza: la bontà. La Napoli di Munasterio e Santa Chiara è la stessa che Isaia, la voce narrante di Dove sta Zazà, in quegli anni continuerà a cercare disperatamente tra guerra e miseria, macerie materiali e morali. Saccheggiata, distrutta, sparita (come Zazà) agli occhi dei cittadini, derubata nell'anima. Eppure, partendo da questo paesaggio di rovine, e dalla consapevolezza di dover affrontare un mondo completamente nuovo e diverso, la chiesa distrutta dai bombardamenti diventa un sogno di riscatto, la metafora della città che vuole rimboccarsi le maniche e ripartire.
Però è l'angoscia che ha il sopravvento, l'angoscia di tanti poeti, scrittori, musicisti che amano la loro città ma, forse proprio da quegli anni, cominciano ad averne paura. Inizia in quegli anni la diaspora degli intellettuali. Eduardo, quello che invitava ad aspettare che passasse la nuttata, ripeterà: Fujtevenne.

Paura? Sí, si fosse tutto overo?
Si a gente avesse ditto a verità?
Tutt' a ricchezza e Napule era o core.
Dice ch'ha perzo pure chillu llà.

* * *

La chiesa fu ricostruita e restaurata secondo l'originario stile gotico, e dieci anni dopo le bombe del 4 agosto 1943 riaperta al culto. Ma è nel campanile di Santa Chiara che continua a battere il cuore fragile della città. Negli scorsi mesi il Mattino ha raccontato altre storie di disfacimenti e crolli, quando il distacco di pietre e di marmi dalla facciata del campanile (di proprietà del Fondo edifici di culto del ministero dell'Interno) ha costretto l'amministrazione a vietare il passaggio di cittadini e turisti nel tratto di Spaccanapoli antistante la facciata. Il progetto di restauro della torre campanaria, che non è visitabile dal 43, viaggia con una lentezza disarmante, tra mancanza di fondi e ostacoli di ogni tipo. Nei mesi scorsi ha preso l'iniziativa la seconda municipalità, guidata da Francesco Chirico, che ha coinvolto la Fondazione di Comunità del centro storico in un'operazione di crownfonding con l'obiettivo di finanziare i lavori di restauro. Per fare della torre campaniaria di Santa Chiara, una delle più belle d'Italia, un teatro della memoria viva, e non un simbolo della città immobile, una delle (tante) cicatrici che deturpano il volto della città.
© RIPRODUZIONE RISERVATA