«Sono la testa di quel grande corpo collettivo che è una squadra di calcio. Sintesi di una fede, di un’identità e di un’appartenenza. Lo dice la stessa parola capitano, che deriva dal latino caput cioè testa, guida, comando, esempio». Questi sono i capitani, secondo l’antropologo napoletano Marino Niola, che condivide con la moglie Elisabetta Moro anche la passione per i colori azzurri. La fascia che diventa un simbolo, al di là da chi la ostenta sul braccio sinistro, che non sempre è il più dotato tecnicamente. Il capitano è l’uno che rappresenta tutti, con una leadership che deve essere naturale per poter convincere i compagni a metterlo alla testa del gruppo. Alle storie di questi uomini è dedicato il libro “Capitani per sempre” (LeVarie, pagg. 232, euro 16), un’idea di Gianfranco Coppola, caporedattore della Rai e presidente dell’Ussi, con il contributo di tante firme del giornalismo italiano e il nobile fine di destinare tutto il ricavato alla comunità “Casa di Tonia”, nata su iniziativa dell’arcivescovo emerito di Napoli Crescenzio Sepe.
È una testimonianza sul ruolo di questi uomini di epoche distanti, che hanno vissuto in modi e contesti differenti, sempre però rispettando questa “missione” affidata dallo spogliatoio o dagli allenatori. Il libro è suddiviso in più capitoli. Si parte dai capitani del Napoli, 22, in testa Diego Armando Maradona e Beppe Bruscolotti, che all’amico consegnò la fascia nell’85. Ci sono anche capitani che hanno vissuto stagioni grame a Napoli, tra retrocessioni e contestazioni, e altri arrivati da lontano che qui hanno trovato la loro casa, come Bruno Pesaola e Marek Hamsik. C’è il titolare della fascia di oggi, Giovanni Di Lorenzo, che sognava di vincere da capitano lo scudetto come Maradona e vi è riuscito, salvo poi andare a sbattere contro il muro di questa stagione, triste per chi aveva alzato il simbolo dello scudetto con il numero 3 appena un anno fa. E poi la storia di tutti gli altri capitani, compresa Sara Gama, stella della Juve e della Nazionale. C’è il capitano del Mondiale 2006, Fabio Cannavaro, il ragazzo della Loggetta che non diventò il simbolo dell’amato Napoli perché servivano miliardi di lire in cassa e fu ceduto giovanissimo. C’è un capitano-non capitano, Gigi Riva, che non aveva bisogno di una fascia per evidenziare il suo legame con Cagliari. La particolarità di questa sezione sono i due articoli dedicati ad Agostino Di Bartolomei: il primo sul lungo ciclo in serie A con Roma, Milan e Cesena; l’altro sull’ultimo atto a Salerno in serie C, con quella che definì una scelta di vita, lui che si suicidò sulla terrazza della villa di Castellabate a dieci anni dalla finale di Coppa dei Campioni all’Olimpico. La più atroce delle sconfitte.
Le ultime due sezioni del libro, che ha ricevuto il patrocinio dell’Assocalciatori e il supporto di Figurine Panini, dedicate ai capitani stranieri e a quelli dei campionati dilettanti, curata da Antonio Sasso, che descrive uomini che non hanno avuto l’onore di calcare i palcoscenici della serie A ma hanno giocato con orgoglio per i loro tifosi su campi in terra battuta. L’idea di raccontare queste storie ha avuto origine in un giorno di dolore per il calcio italiano, quello della scomparsa di Antonio Juliano, una vita azzurra con la fascia. Simbolo autentico di passione, trasferita dal campo alla stanza dei bottoni del Napoli, quando da direttore generale piazzò i colpi Krol e Maradona. Martedì 28 maggio (ore 17), nei saloni della Canottieri Napoli, sarà assegnato il “Premio Capitani per sempre Memorial Juliano” dedicato ad Antonio, con la partecipazione di altri due straordinari capitani, Bruscolotti e Ferrara. «Juliano aveva polverizzato l’oleografia sui napoletani facendo della severità, della concretezza, della scrupolosità, della tenacia il karma della vita», scrive Coppola. Fu questo il suo scudetto.