Salman Rushdie al Salone del libro di Torino: «Ora la mia voce è più forte»

Lo scrittore al primo incontro pubblico dopo l'attentato

Lo scrittore Salman Rushdie al Salone del Libro di Torino
Lo scrittore Salman Rushdie al Salone del Libro di Torino
di Massimo Novelli
Venerdì 10 Maggio 2024, 07:00 - Ultimo agg. 20:00
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«Sarà il Salone delle ragazze e dei ragazzi». Parola di Annalena Benini, nuova direttrice della kermesse torinese del libro, che ieri ha aperto la sua trentaseiesima edizione al Lingotto Fiere con il tema portante della «Vita immaginaria», suggerito da una frase di Natalia Ginzburg. La più grande di sempre, dicono i comunicati stampa, con i suoi 137.000 metri quadrati tra Lingotto, Oval e Centro congressi. La più giovane, o almeno così vorrebbe essere, visto che ai ragazzi dedica per la prima volta un intero padiglione. Ma poi, dopo il taglio del nastro, e la lezione inaugurale di Elizabeth Strout, una delle voci più importanti della letteratura americana contemporanea, la giornata è dettata dalla presenza, dal carisma e dalla scorta di un grande vecchio, anzi del grande vecchio. 

Parliamo di Salman Rushdie, settantaseienne scrittore indiano naturalizzato inglese, autore dei Versetti satanici e dei Figli della mezzanotte. Un grande vecchio dalla pelle dura, soprattutto se si pensa all’attentato subito negli Stati Uniti il 12 agosto 2022, da cui è nato il suo libro Coltello.

Meditazioni dopo un tentato assassinio (edito da Mondadori), che ha segnato il ritorno, dopo quasi due anni, alla scrittura. Rushdie non polemizza, non recrimina. Non vuole nemmeno tornare su quegli intellettuali che non lo difesero dopo la fatwa per i Versetti satanici: «Per me è stato doloroso subire attacchi anche da parte di non islamici. Molti scrittori li reputavo miei amici, eppure mi hanno attaccato. Per fortuna non sono uno che rimugina, anche se ricordo tutto, ricordo perfettamente i loro nomi».

Nonostante fatwa e attentato del 2022, non sono riusciti a zittirlo. E infatti Salman Rushdie non tace: «Avrei preferito non essere pugnalato quindici volte», dice alle giornaliste e ai giornalisti che lo intervistano nella sala Londra del Lingotto Fiere, «ma ora la mia voce, che l'attentato voleva silenziare, è più forte. E questo libro è un coltello per reagire contro il mio attentatore», uno «che non sapeva quasi nulla di me, e che nel mio libro non nomino con il suo nome perché ha già avuto il suo momento di notorietà. Ora può tornare a essere un signor nessuno». È il primo incontro pubblico dopo quello dell’attentato e qualcuno gli chiede se abbia paura. «Subisco minacce da 35 anni, so come far fronte a una situazione come questa bisogna essere più cauti, attenti che non succeda un’altra volta, ma prestare attenzione non significa avere paura. Non voglio che si ripeta un fatto come questo, ma voglio andare avanti e vivere normalmente la mia vita. Ho dovuto ritrovare la forza di tornare a lavorare come prima. È passato un buon lasso di tempo, sei mesi circa, un periodo molto duro e negativo, poi sono tornato a scrivere. È stato come un interruttore scattato improvvisamente».

Non bisogna chiedergli, parafrasando Eugenio Montale, la parola che squadri da ogni lato l'animo nostro informe. In altre parole: non lo si porta sul terreno della politica, non ha ricette da proporre per quanto sta accadendo nel mondo, dall'Ucraina a Gaza. Non ama ovviamente Hamas, ossia lo detesta. E non ama neppure Netanyahu, detesta pure lui. Così dice: «Non ho soluzioni da dare. Credo che un buon scrittore debba porre delle buone domande, non delle risposte». 

Ma sa bene che le religioni possono essere veicoli di morte, di sopraffazione. Tuttavia, aggiunge, «non si può accusare solo l’Islam radicale, anche se danneggia milioni di persone in tutto il mondo». E rammenta le chiese evangeliche americane, le loro posizioni antiabortiste, il loro sostegno alla destra di Donald Trump. 

Si sofferma poi sulla guerra fatta o continuata con le parole, ossia la «guerra mondiale delle storie», come la chiama: «È arrivato il momento», sostiene Rushdie, «di cambiare il modo in cui si raccontano i conflitti. Per la guerra in Ucraina, c’è un leader russo che dice che gli ucraini sono nazisti; gli ucraini affermano l’opposto. In Medio Oriente ci sono due forze contrapposte che stanno lottando per un pezzo di terra. La sola possibilità per uscire dalla guerra è riconciliarsi nella narrazione, se no si andrà avanti per sempre con la guerra». 

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Gli scrittori, prosegue, «non posso fare altro che continuare a scrivere. Io so solo scrivere, non sono un ballerino, né una star del calcio». Infine l’Italia: «Questo ritorno per me significa un'ulteriore vittoria. Ero stato qui un mese prima dell'attentato, eravamo tornati negli Usa poco prima. Eravamo stati in Sardegna, Umbria, Capri, un po’ a Milano e a Roma. Era appena finito il tempo della pandemia ed era piacevole riuscire a tornare in un Paese così bello. Il ritorno di oggi in Italia è la chiusura del cerchio», conclude. 

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