La tragedia esibita
nel baratro della rete

di Alessandro Campi
Venerdì 28 Luglio 2017, 23:55
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Cosa ci si aspetta quando si consegnano i propri sentimenti privati alla platea virtuale della rete? Probabilmente le attenzioni che non si riesce a suscitare nei propri cari o amici reali.


Si cercano degli interlocutori, dei confidenti, un pubblico che sia in grado di ascoltare e interloquire, foss’anche costituito da perfetti sconosciuti, ma non ci si rende conto quanto tutto ciò sia effimero e di breve durata. Oggi la nostra storia sembra interessare, domani sarà dimenticata o superata da un’altra più accattivante, o semplicemente più eclatante e più estrema. Un eterno ed effimero consumo di emozioni che finisce per renderle vane, insincere e reversibili. Ma forse è solo un modo per proiettare verso uno spazio che si ritiene infinito, certamente superiore a quello delle mura domestiche o alla cerchia delle nostre abituali relazioni sociali (quando esistono), un Io soggettivo che si è fatto in effetti smisurato, alla ricerca di un riconoscimento esterno (non importante quanto effettivo e duraturo) che sembra essere diventato per molti l’unica ragione di vita. Apparire o morire, mettersi in mostra sperando che qualcuno si accorga di noi, sentirsi importanti (anche solo per un attimo) perché qualcuno si interessa alle nostre vicende, alla foto che pubblichiamo o al breve pensiero che ci passa per la testa. La nostra identità è ciò che gli altri pensano di noi.


Forse è solo paura della solitudine, che in effetti è la malattia sociale della modernità da tempo diagnosticata. Forse dipende dall’aver introiettato una cultura del consumo che dalle cose si è trasferito ormai anche alle persone e alla loro sfera interiore. Si mette tutto di sé sul mercato, per di più gratis o praticando il baratto delle emozioni. Ma così ci si impoverisce senza nemmeno rendersene conto. Ci si mette in mostra, ci si denuda (e non solo in senso figurato) vincendo ogni pudore e spesso superando anche la soglia del buon gusto, ma per ottenere alla fine che cosa? Un momento di celebrità, un appagamento temporaneo, un’attestazione di esistenza in vita che intimamente non ci solleva dal pensiero che il mondo – ecco il nostro grande dramma esistenziale, la rivelazione angosciosa che ci consegna, quando essa si manifesta, ad una irrilevanza cosmica e metafisica – va avanti anche senza di noi, sebbene ci si voglia illudere del contrario. La rete, i social, la comunicazione digitale stanno in effetti determinando una grandiosa rivoluzione cognitiva, oltre a modificare molte nostre abitudini e comportamenti, senza contare gli obiettivi vantaggi che comporta un modo di comunicare più diretto e veloce. Ma spaventa, anche alla luce di certi terribili episodi di cronaca, compresi quelli più recenti, lo scombussolamento che questa rivoluzione sta producendo soprattutto nella nostra mente, nel nostro stato d’animo, nella nostra sfera interiore.


L’angoscia politica più grande del Novecento è stata quella di un potere talmente invadente da riuscire a controllare la nostra sfera privata e a pilotare le nostre sensazioni: il Grande Fratello, il Truman Show. Quell’angoscia l’abbiamo superata e neutralizzata, a quanto pare, rendendo pubblica e alla portata di tutti (regalando con finalità di marketing a quello stesso potere, divenuto in effetti capillare e pervasivo) ogni momento della nostra vita e ogni nostro sentimento: bello o brutto, drammatico o allegro. Non siamo osservati, ci facciamo osservare. Davvero un epilogo tragicamente paradossale: per paura di perdere la privacy l’abbiamo annullata come sfera, mettendo tutto in rete e alla portata del primo che passa. Le nostre rabbie come i nostri dolori, ciò che mangiamo e il posto dove ci troviamo in villeggiatura, la nostra disperazione (da urlare a un pubblico di sconosciuti un attimo prima di farla finita, come è successo tragicamente ieri col suicidio annunciato via facebook da un giovane professionista napoletano) e i nostri problemi esistenziali (che ci viene facile spiattellare anche in questo caso a degli sconosciuti, ma che facciamo difficoltà a raccontare, viso a viso, ad una madre, ad un fratello o a un compagno di classe). È una socialità nuova quella che la rete sta costruendo, insieme ad un’umanità anch’essa nuova. Ma un tempo una simile frase suonava come una speranza o come l’annuncio di un progresso della storia.


Oggi sembra indicare un futuro spaventevole che non sappiamo governare e forse nemmeno descrivere.
Ci avevano detto che la rete avrebbe dato a tutti libertà di parola e di espressione. E questo la rendeva un’innovazione meravigliosa, un vero progresso. Ci era sfuggito l’abbrutimento e la regressione – degli affetti, dei pensieri, delle relazioni soggettive – che essa può produrre, specie in chi ne fa un uso smodato e al dunque solo falsamente liberatorio. È una discussione solo agli inizi, quello sugli effetti psico-sociali della rete: una grande questione antropologica, sociale, culturale e politica che sempre più dovrà impegnarci, visto che deciderà la qualità del mondo nel quale dovremo vivere.
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