Pensioni, lavoro, tasse e prestiti:
​così l'Italia scoraggia i giovani

Pensioni, lavoro, tasse e prestiti: così l'Italia scoraggia i giovani
di Francesco Pacifico
Giovedì 18 Agosto 2016, 08:30 - Ultimo agg. 17:55
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L'articolo 18 difende i padri ma non i figli. Per comprare casa, e affacciarsi in banca, ci vuole sempre la firma a garanzia dei genitori. Gli aumenti non sono distribuiti in base al merito e alla produttività (quindi alla fatica), ma solo in relazione all'età. No, dal punto di vista legislativo, l'Italia non è affatto un Paese per giovani. E l'ennesima prova l'avremo in autunno con la Legge di stabilità, dove il governo si è imposto di trovare i soldi necessari per anticipare la pensione dei sessantenni e per farlo è pronto a tagliare i fondi per la decontribuzione destinata ai nuovi contratti.

Tutto questo avviene in un Paese dove il presidente del Consiglio ha 41 anni. Non li ha ancora compiuti, i quarant'anni, il personaggio politico più in voga in questo momento, il neo sindaco di Roma Virginia Raggi. Giovani poi sono i più agguerriti leader dell'opposizione (Matteo Salvini con 43 anni e Luigi Di Maio con 30). Mentre il futuro del capitalismo familiare italiano è nelle mani di un 40enne (il presidente di FiatChrysler John Elkann) e di un 47enne (Pier Silvio Berlusconi).

Ma questa è soltanto la punta della piramide, dove l'ascensore sociale fa sempre più fatica a salire. Per il resto, se due su tre vivono ancora con i genitori, uno su tre è disoccupato. Il 57 per cento poi è precario. Anche perché ci vogliono fino a 36 mesi per trovare il primo lavoro. E pure quando arriva l'assunzione a tempo indeterminato, si guadagna la metà (23.500 contro 48mila) rispetto a un coetaneo svizzero. Per non parlare del 42 per cento che se ne va tra tasse e contributi per una pensione che, senza l'integrazione di un'assicurazione, non varrà neppure la metà dell'ultimo stipendio. Ma guai a lamentarsi, perché intorno a noi c'è circa mezzo milione di under 30 che ci mette cinque anni per uscire dalla giungla fatta di cocopro, somministrazioni e contratti temporanei e arrivare alla stabilizzazione.

Il saldo è negativo. E il gioco di luci e ombre viene facile con il Jobs Act. Con la riforma il governo ha provato a mettere fuori legge la precarietà e i contratti a tempo (soltanto di contribuzione i parasubordinati pagano il 31,72 per cento su quanto guadagnato), mentre gli sgravi per assumere con le tutele crescenti (e a tempo indeterminato) hanno oscillato tra gli 8.066 euro del 2015 e gli attuali 3.250 euro annui. Ma per rendere ancora più conveniente l'assunzione dei giovani, Palazzo Chigi ha deciso un taglio ancora più netto sulle tutele: i nuovi contratti prevedono un periodo di prova lungo tre anni, non riconoscono l'articolo 18, garantiscono davanti al giudice soltanto un risarcimento in caso di licenziamento economico illegittimo (e non più il reintegro) e non impongono neppure la verifica congiunta con i sindacati in caso di licenziamenti collettivi. Con il risultato che nella stessa azienda ci sono dipendenti di serie A (quelli assunti precedentemente alla legge) e dipendenti di serie B. I più giovani.

Complice la crisi, ai propositi del governo non sono seguiti i risultati sperati. Nonostante si siano spesi in incentivi 6,1 miliardi di euro, nel primo anno di vita del Jobs Act ci sono stati 320mila occupati in più soltanto tra gli over 55. Nella fascia 1825 anni si sono persi 46mila posti, che salgano a 148mila considerando tutti gli under 35. «E non poteva andare altrimenti», sostiene Luca Ricolfi, ordinario a Torino di Analisi dei numeri e copresidente della Fondazione Hume, «Qualche anno fa proponemmo di trasferire i tanti fondi destinati al bonus Irpef da 80 euro o quelli per la decontribuzione al taglio delle tasse per le imprese che aumentano l'occupazione stabilmente. Che è cosa diversa rispetto alle semplici assunzioni, favorite in maniera indiscriminata dal Jobs act. In questo modo avremmo creato 400mila posti di lavoro. Senza contare che il taglio delle tasse invoglia le imprese a investire sul capitale umano, perché a differenza della decontribuzione non riduce i loro margini».


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