«Cristo era napoletano»: la pelle dei miserabili tra le macerie della Storia

Alla ricerca dei luoghi del libro di Curzio Malaparte

Vico Sant'Agostino alla Zecca
Vico Sant'Agostino alla Zecca
di Vittorio Del Tufo
Domenica 14 Aprile 2024, 11:07
7 Minuti di Lettura

«Non si udiva una voce, neppure un pianto di un bambino. Uno strano silenzio gravava sulla città affamata, madida del sudore della fame» (Curzio Malaparte, La pelle)


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Napoli, 1943. All'ufficiale di collegamento Curzio Malaparte non piaceva vedere fino a che punto l'uomo potesse abbrutirsi, per sopravvivere. Alla «peste» che, dopo la liberazione, «ci aveva tutti sporcati, corrotti e umiliati», preferiva la guerra. L'ufficiale di collegamento Curzio Malaparte avrebbe preferito non guardare lo spettacolo della bassezza umana: gli ripugnava star seduto, «come un giudice o uno spettatore», a guardare gli uomini mentre scendono gli ultimi gradini dell'abiezione.
Perché c'è sempre il rischio che quegli uomini si voltino indietro. E incrocino il tuo sguardo.

Il sorriso, scarnificato e macabro, degli uomini costretti a scendere «gli ultimi gradini dell'abiezione» accompagna la lettura (e la rilettura) de La pelle dalla prima all'ultima pagina. Ancora oggi, a 75 anni dalla pubblicazione, "viaggiare" dentro il libro di Malaparte equivale a compiere un viaggio, tragico e doloroso, sotto la pelle di una città che negli anni dell'occupazione alleata, dal 1943 al 1945, si è fatta Corpo, materia in disfacimento, organismo in putrefazione. Non la ragione, non la coscienza, ma «oscure forze sotterranee» parevano governare gli uomini sin dal primo giorno in cui gli eserciti alleati erano alleati in città dopo la lotta feroce dei napoletani, che in quattro memorabili giornate avevano già cacciato i tedeschi gettandosi, spesso senz'armi, contro di essi.
Dal novembre 1943 al marzo 1946 Curzio Malaparte aveva svolto le funzioni di ufficiale di collegamento aggregato all'alto comando statunitense in Italia. E in quella veste, passeggiando con il colonnello Jack Hamilton per le strade sventrate della città, era stato costretto a vedere quello che non avrebbe voluto vedere: la "peste" di Napoli, quell'orribile e invisibile morbo portato in città, in Italia, in Europa dagli stessi liberatori che però ne restavano immuni.

Aveva visto ragazzi dal viso pallido e scarno, accecati dalla fame, che cantavano come cantano i ciechi, con viso riverso e gli occhi rivolti al cielo; donne livide e sfatte, dalle gote incrostate di belletto, orribili e pietose, che offrono ai passanti ogni genere di mercanzia, a cominciare dal loro corpo; croste di pane secco raccattate dalla spazzatura, ossa spolpate: il tesoro dei disperati. Insomma gli abissi di vergogna e di dolore degli uomini che dopo aver lottato e sofferto per non morire ora lottavano e soffrivano, scriveva Malaparte, per restare in vita.

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Se le città sono un paesaggio dell'anima, i luoghi de La pelle sono i luoghi simbolo di un paesaggio in disfacimento, della città-mondo che si è fatta Corpo. Corpo scarnificato e sfatto, Corpo divorato da tutti e che tutto divora. Ecco il "paesaggio" del Pendino di Santa Barbara, tra il Sedile di Porto e Santa Chiara: ad esso Curzio Malaparte ha dedicato una delle pagine più crude del suo romanzo, pagine che gli valsero la deplorazione del consiglio comunale di Napoli. «Il Pendino è un vicolo lugubre, non tanto per la sua strettezza tagliato com'è fra gli alti muri, verdi di muffa, di antiche e sordide case, né per l'oscurità che vi regna eterna anche nelle giornate di sole, quanto per la stranezza della sua popolazione. Famoso è infatti il Pendino di Santa Barbara per le molte nane che vi abitano. Sono così piccole che giungono a stento al ginocchio di un uomo di media statura... tra le più brutte nane che vi siano al mondo». Ed ecco il "paesaggio" di piazza Olivella, dove per cento lire potevi assistere, in un basso con l'immagine della Madonna illuminata da un lumino a olio, allo spettacolo della ragazza vergine («a real virgin») che mentre fuma, assorta, seduta sul con le gambe penzoloni, afferra con la punta delle dita i lembi della sottana e lentamente li solleva, per mostrare ai soldati americani «la rosea e nera tenaglia delle carni», immobile e minacciosa, con i piccoli occhi rotondi, neri e lucenti. Ed ecco il "paesaggio" dei Gradoni di Chiaia, che da via Chiaia conduce a Santa Teresella degli Spagnoli, «il miserabile quartiere dove un tempo erano le caserme e le case di piacere dei soldati spagnoli». Qui una folla di donne sedute sulla scalinata attende il passaggio dei soldati aprendo le gambe per mostrare il «nero pube fra il roseo bagliore della carne nuda: five dollari! Five dollars!». Ed ecco il "paesaggio" di Forcella, dove si svolge il mercato volante dei neri, la compravendita dei soldati dell'esercito americano, so kind, so black, so respectable, i quali non potevano certo immaginare di essere venduti e comprati come schiavi dopo essere sbarcati a Napoli come vincitori. E invece è proprio quello che accade: la caccia ai soldati neri era il gioco favorito dai ragazzi di Napoli, «quando uno scugnizzo riusciva ad afferrare un negro per la manica della giubba, e a trascinarselo dietro di bar in bar, di osteria in osteria, di bordello in bordello, da tutte le finestre, da tutte le soglie, cento bocche, cento occhi, cento mani gli gridavano: vendimi il tuo black! Ti dò venti dollari! Trenta dollari! Cinquanta dollari!».


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Dentro l'involucro della carne sana era l'anima a guastarsi, a disfacersi. L'anima di un popolo vinto cui sono toccate in sorta mille "pesti" e mille liberazioni, eppure non maledice e non odia nessuno, neppure la sua miseria. «Cristo - scrive Malaparte - era napoletano».
Nella Città-Corpo si espande ogni genere di odore, odori opachi, viscidi, fatti di mille effluvi, di mille torbide esalazioni, odori di mari polverosi, di notti salate, di «antiche foreste di alberi di carta». Le parole, invece, sono umide, fredde, orribili, come i gorgoglii che escono dalla bocca dei morti quando appoggi loro una mano sullo stomaco. La Città-Corpo divora tutto: così capita che a un grande pranzo tra generali e nobildonne angloamericani venga servito a tavola un pesce-Sirena che non ha affatto l'aspetto di un pesce, bensì appare in tutto e per tutto simile una bambina napoletana morta.

Malaparte scrisse La Pelle nel 1949; pochi mesi dopo il libro, per la crudezza delle descrizioni, venne condannato dal Vaticano e messo all'Indice dei libri proibiti Nel cuore vibrante della città violentata dalla guerra, l'autore riesce a scorgere un barlume di splendore: il Palazzo Sessa di Cappella Vecchia, che alla fine del 700 fu acquistato dall'ambasciatore inglese William Hamilton, tra i protagonisti della vita intellettuale, mondana e scientifica della Napoli settecentesca. Hamilton aveva portato nella sua nuova dimora la giovane moglie, lady Emma, che sarà platonicamente apprezzata da Goethe e diventerà poi, meno platonicamente, l'amante dall'ammiraglio Nelson. «Da quella finestra, lassù, Orazio Nelson, la fronte appoggiata ai vetri, mirava il mare di Napoli, l'isola di Capri errante all'orizzonte, i palazzi del Monte di Dio, la collina del Vomero verde di pini e di vigne».

Scrisse Milan Kundera che ne La pelle Malaparte «con le sue parole fa male a sé stesso e agli altri; chi parla è un uomo che soffre. Non uno scrittore impegnato. Un poeta». Il suo viaggio al termine della notte celebra, al tempo stesso, la crudeltà della guerra, della vita e della letteratura. Ma anche lo spirito di una città-mondo che riuscirà a risorgere non solo dalla schiavitù e dalla guerra, ma anche dalla "peste" portata dalla liberazione. Le forze misteriose e oscure che a Napoli governano gli uomini «e i fatti della vita» restano imperscrutabili ai soldati liberatori pur «atterriti e commossi da tanto flagello». Così Napoli, ancora una volta, resta invisibile agli occhi di chi non sa guardarla.
 

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