Chissà come chiameremo questi anni

Chissà come chiameremo questi anni
Mettendo in ordine le biblioteche escono libri lontani, alcuni che non ci parlano più, altri che ci parlano sempre allo stesso modo e qualcuno che ha cambiato lingua,...

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Mettendo in ordine le biblioteche escono libri lontani, alcuni che non ci parlano più, altri che ci parlano sempre allo stesso modo e qualcuno che ha cambiato lingua, sembra che ne abbia una più forte di quella che ricordavamo. Non succede sempre, c’è bisogno che lo scrittore sia unico, che non venga strattonato dalle gazzette, e che abbia scritto dei libri anomali, ibridi, che ricordano qualcosa di indefinito, un vero pezzo d’artigianato, impossibile da aversi oggi, con la dittatura degli editor. Tra i diritti del lettore c’è l’improvvisa lettura a caso, che poi è il carotaggio letterario, che davanti a un libro, uno solo, trova uno stupore doppio, più del primo, che pure insorge. È quello per “Chissà come chiameremo questi anni” (Sellerio) di Giuliana Saladino, uno dei punti più alti della scrittura italiana dispari (recuperate anche “Romanzo civile”, “Terra di rapina” e “De Mauro, una cronaca palermitana”). Apparentemente una raccolta di articoli, in realtà pagine di storia scritte con una lingua fortissima che ha scavalcato il tempo, ora che quella storia è storia di morti e che anche il corpo di chi ha prestato la voce non c’è più, ma ci sono quelle pagine e fischiano.

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Il Mattino