«Casalesi spa», spuntano gli affiliati di camorra «bancomat»

«Casalesi spa», spuntano gli affiliati di camorra «bancomat»
Per inquadrare il giro di soldi non basta menzionare la somma, pur impressionante, di cento milioni di euro «seguiti» dalla guardia di finanza nei quattro anni...

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Per inquadrare il giro di soldi non basta menzionare la somma, pur impressionante, di cento milioni di euro «seguiti» dalla guardia di finanza nei quattro anni d’indagine. Per capire la reale entità del sistema di frodi che, ieri, ha portato a 63 misure cautelari in tutta Italia, bisogna andare dal generale al particolare e focalizzare l’obiettivo su una giornata «tipo» di una «testa di legno» al soldo di un’organizzazione capace di muovere un milione e mezzo di euro al giorno senza allertare, per lungo tempo, l’antiriciclaggio.

Passa attraverso la legione di «uomini di paglia» l’ultima frontiera della «Casalesi spa». Nullatenenti con, in media, cinque conti correnti all’attivo dai quali, ogni giorno, venivano prelevati complessivamente 55mila euro. Che, moltiplicati per un mese, fanno un milione e seicentomila euro. La formula «magica» è la frammentazione delle somme: in caso contrario l’alert antiriciclaggio sarebbe scattato subito, perché desta sospetto qualsiasi movimentazione superiore ai 10mila euro mensili. Più conti correnti, dunque, per una sola persona. Finché anche quel flusso anomalo di denaro diretto a gente priva di reddito ha finito per far scattare l’allerta e indurre la guardia di finanza a chiedere la consulenza della Banca d’Italia. Di qui l’inchiesta sfociata ieri nella maxiretata per frode. 


La vera forza dell’organizzazione erano i «prelevatori». «Teste di legno» cui erano intestate le ditte che trasformavano in contanti i movimenti fittizi di denaro. Alcuni prendevano dai 50 ai 100 euro a prelievo. Altri dai 1000 ai 1500 euro al mese. Il loro compito era tenere aperte 44 ditte individuali o partite Iva sulle quali far confluire le somme via via sempre meno ingenti che partivano dalle ditte «a monte», 33 quelle individuate, che emettevano bonifici per operazioni inesistenti. Nel mezzo, 18 aziende filtro, utili a confondere il percorso del denaro. Il frazionamento degli importi, nei piani degli organizzatori, avrebbe dovuto essere un ombrello col quale ripararsi dall’antiriciclaggio. Ma alla lunga anche questo è venuto alla luce, nel corso della complessa indagine condotta dalla Procura di Napoli e delegata ai comandi provinciali della guardia di finanza di Napoli - diretta dal generale Gabriele Failla -, di Caserta - coordinato dal colonnello Giuseppe Furciniti - e Salerno, sotto il coordinamento del Nucleo speciale polizia valutaria di Roma, agli ordini del generale Vito Giordano. 

Dai carburanti al trasporto su gomma, fino alla ricambistica e ai legnami. Compaiono queste ragioni sociali nel corollario di aziende «lavatrici». Alcune di esse, secondo la Dda di Napoli, erano indirettamente gestite da Giuseppe Guarino, cognato di Giacomo Capuluongo, fratello di Maurizio, vecchio esponente della camorra casertana tornato in libertà a luglio. I Capoluongo non risultano indagati in questa inchiesta, ma la sorella di Guarino, moglie di Giacomo Capoluongo, è finita agli arresti con l’accusa di avere provveduto, insieme al fratello, alla raccolta e alla «spartizione» degli utili, nonché alla consegna delle «mesate» alle famiglie dei detenuti. 

Come emerso già in passato in inchieste di questo tipo, l’intricata architettura che consentiva ai truffatori di aggirare le leggi antiriciclaggio è opera di professionisti della contabilità. Commercialisti ed esperti in materia fiscale avrebbero collaborato per la «messa a sistema» di questo tipo di truffe. Ma di loro, dei commercialisti al soldo dell’organizzazione, per adesso nessuna traccia. L’indagine non è ancora conclusa.



Somme cospicue, dunque. Lo certifica, tra le altre, un’intercettazione del 2018 in cui Guarino afferma di aver consegnato quella settimana «850.000 euro» a tale «Luigi» (esponente del clan dei Casalesi, gruppo Setola) il quale, si legge ancora nel dialogo captato, «tiene 30 o 40 famiglie sulle spalle». Le mesate alle famiglie dei carcerati, di questo, ritiene la Dda, parla Guarino. È il collante biadesivo. Il clan non abbandona chi non tradisce. E chi non si sente «abbandonato» si presta a qualsiasi servigio.

 

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Il Mattino