Strage di Durazzano, killer si difende: «Mi volevano uccidere e ho sparato»

Strage di Durazzano, killer si difende: «Mi volevano uccidere e ho sparato»
I sospetti degli investigatori sono stati confermati dall'indagato. Che, ieri, al giudice per le indagini preliminari ha detto di essere stato costretto a sparare. Di essersi...

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I sospetti degli investigatori sono stati confermati dall'indagato. Che, ieri, al giudice per le indagini preliminari ha detto di essere stato costretto a sparare. Di essersi dovuto difendere, quindi, dalla furia dei due uomini che prima lo hanno inseguito per le strade di Durazzano e poi gli hanno puntato contro una pistola. Ha dovuto sparare «per difendersi» dunque e, prima del drammatico epilogo, ha anche chiamato i carabinieri per chiedere aiuto. Eccolo il sunto dell'interrogatorio che si è tenuto ieri dinanzi al gip Gelsomina Palmieri. Francesco D'Angelo, accusato di avere ucciso a fucilate Mario Morgillo e Andrea Romano (nella foto), si è difeso, ma non ha risposto alle domande del gip. Ha reso spontanee dichiarazioni. E ha ricostruito un pomeriggio di terrore dove, inizialmente, la vittima era lui. Assistito dall'avvocato Valeria Crudo, l'operaio 52enne detenuto dalla notte di domenica al carcere Capodimonte di Benevento ha spiegato che da un anno subiva le angherie dei Morgillo. Che, ancora, dopo avere avuto un incidente con Gennaro Morgillo, figlio di Mario, per lui è iniziato un incubo.


 

LE DENUNCE
Prima dell'epilogo da far west, D'Angelo ha più volte denunciato i Morgillo. Ricorrendo quindi alle vie legali, e civili, per Dai giorni successivi quell'ormai famoso incidente che avrebbe innescato una serie infinita di ripicche e minacce, e fino a domenica. Ieri, al gip, D'Angelo ha riferito che, anche domenica, poco prima della sparatoria in piazza Galilei, ha chiamato i carabinieri per chiedere aiuto. Che, dopo problemi di linea, ci ha parlato, coi carabinieri, ma poi ha detto all'operatore che era tutto a posto che, insomma, i Morgillo se n'erano andati. E invece sono ricomparsi in piazza Galilei, dove lui si era appena fermato.
«HO VISTO UNA PISTOLA»

Una volta in piazza, è successo l'irreparabile. «Ho visto una pistola, ho temuto per la mia vita, per cui ho sparato». Eccola la versione del killer. Una versione in cerca di conferme sulla quale, prima ancora delle sue rivelazioni, la Procura di Benevento aveva avviato accertamenti. Perché il sospetto che una delle due vittime fosse armata è emerso sin da subito insieme a quello che, dopo la mattanza, qualcuno abbia fatto sparire dalla scena del crimine l'arma impugnata da una delle vittime. Proprio per chiarire questo aspetto, tra gli accertamenti disposti dal pm c'è la prova dello stub sui cadaveri, custoditi all'obitorio del Rummo, in attesa dell'autopsia che si terrà lunedì. Gli esami potrebbero indurre la Procura a cambiare il capo d'imputazione, fissato ieri dal gip in omicidio volontario all'atto della convalida, ma tutto dipende dagli esiti dei tanti accertamenti che sono ancora in corso. Inclusi quelli sui tabulati telefonici che dovranno stabilire se effettivamente, prima di imbracciare il fucile e lasciare due cadaveri sul selciato, D'Angelo ha chiesto aiuto ai carabinieri. La prova della telefonata deporrebbe sicuramente a suo favore. Testimonierebbe, insomma, che fino all'ultimo momento, l'indagato ha tentato di difendersi ricorrendo alle vie legali. Un comportamento poco «lineare» con il profilo di un killer spietato e calcolatore che ammazza a fucilate due uomini nel bel mezzo di una piazza gremita di persone, potenziali testimoni.
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Il Mattino