Ci sono stragi e stragi, vittime e vittime. Dolori di serie A, che meritano cerimonie, legioni di associazioni e avvocati pronti a costituirsi parte civile al motto, sempreverde,...
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Sei morti in due fasi dello stesso agguato, tra un bar e una 127 rossa. Bersagliati, massacrati di colpi nel corso della più feroce delle battute di caccia della «pulizia etnica» ordinata dal clan La Torre. Quando il boss Augusto, il pentito non pentito, ordinò alle sue batterie di fuoco di fare piazza pulita dei pusher neri che, a Mondragone e a Castel Volturno, secondo lui, il boss col nome dell’imperatore romano, stavano portando «la morte e la distruzione». Era il 1990 e quella sera, in due fasi, il commando uccise sei persone e ne ferì altre otto. Per i morti extracomunitari, oggi, ventinove anni dopo, il gup Caputo deciderà se ci sarà giustizia. Si chiamavano Salim Kindy, detto il cinese, Arubu, Aly Khalfan, tutti provenienti dalla Tanzania, e Nay Man Fiugy, che invece era iraniano. E deciderà, il gup, anche se debba esserci giustizia per Alfonso Romano, l’unica vittima italiana della strage di Pescopagano, l’unica per la quale c’è stata costituzione di parte civile. L’unica che, quella sera, si trovava lì per caso. Era un meccanico di 34 anni. Si trovava nel bar in cui il commando esplose la prima raffica di colpi. Alcuni centrarono il figlio quattordicenne del titolare della caffetteria, che sopravvisse miracolosamente. Alfonso Romano non fu altrettanto fortunato: morì dopo la disperata corsa in ospedale. Lasciò la moglie e i sei figli, Alfonso.
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Oggi, tutti loro, rappresentati dall’avvocato Luigi Vallefuoco, chiedono giustizia, anche se da quella maledetta sera del 24 aprile sono passati ventinove lunghi anni. Anni in cui il boss di Mondragone ha dapprima continuato a delinquere, poi si è pentito, poi è stato scaricato, ma non del tutto, dalla Dda, poi ha accusato lo Stato di averlo abbandonato, quindi ha ritrattato le dichiarazioni rese da collaboratore di giustizia. Anche in questo processo, Augusto La Torre, coimputato col cugino, Tiberio Francesco, ha prima parlato e poi ha ritrattato. Perché, era il maggio scorso, ha ritenuto che, in fondo, gli conviene prendere l’ergastolo, ché – parola dell’ex boss – lo Stato non lo tutela e se lo scarcerano – ha detto – rischia di finire ammazzato. Ha confessato invece, e non si è rimangiato la parola, suo cugino, Tiberio Francesco La Torre, difeso dall’avvocato Carlo De Stavola. Ammise le sue responsabilità già nel 2010 e oggi va incontro a un inevitabile massimo della pena. Per entrambi il pm ha chiesto l’ergastolo. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino