Guido D'Agostino, L'ultimo parlamento generale del regno di Napoli nell'età spagnola

Tra il 1442 e il 1642, si alternarono sessanta parlamenti, ora angioini ora aragonesi

La tavola Strozzi
La politica è l'arte del compromesso e la scienza dell'opportunismo, si sa, e lo dimostrano anche le sedute parlamentari di Napoli dal Quattrocento al Seicento, che...

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La politica è l'arte del compromesso e la scienza dell'opportunismo, si sa, e lo dimostrano anche le sedute parlamentari di Napoli dal Quattrocento al Seicento, che sono state interpretate dalla storiografia come semplici e inutili rappresentazioni di potere, a cominciare da Croce che le definiva «forme senza sostanza», come confermava anche sua figlia Elena per la quale non furono mai «organi di vita politica perché coscienza e ideali politici non ebbero il popolo napoletano, baronaggio e città».

Ma negli ultimi anni la storiografia sta cambiando orientamento, perché quelle sedute che si tenevano nel complesso di San Lorenzo Maggiore non sarebbero state solo formali per seguire la moda parlamentare dell'epoca, ma invece avrebbero avuto un ruolo importante nello sviluppo della città. Sarebbe stato, quello napoletano, «parlamento squisitamente politico, dunque investito dal, e pienamente collegato al, tema del potere, con l'esercizio e le relazioni che vi sono connesse; al tempo stesso, sede, occasione e strumento per eccellenza, del rapporto governati-governanti, e del suo vario atteggiarsi e configurarsi; ancora, e non meno decisiva, micro-lente che riflette il contesto sociale del territorio in cui è insediato e attivo», scrive ora lo storico Guido D'Agostino, che si è dedicato alla materia fin dagli anni Settanta, nel suo saggio L'ultimo parlamento generale del regno di Napoli nell'età spagnola (1642), appena edito da La Valle del Tempo (pagine 346, euro 23).

L'autore si dilunga sui particolari dell'ultima seduta parlamentare, delinea una sintesi di tutti i suoi studi dedicati all'argomento e dimostra ancora una volta, citando documenti e fonti d'archivio, approfondendo atti notarili finora ignorati o sottovalutati, che le assemblee furono strumenti fondamentali per la vita politica e sociale dei napoletani.

Tra il 1442 e il 1642, si alternarono sessanta parlamenti, ora angioini ora aragonesi. Il più breve durò una settimana, il più lungo un paio di mesi. Ne facevano parte rappresentanti dei baroni e del popolo. Erano convocati dal sovrano di turno per chiedere aiuti finanziari, fino a un milione di ducati, di solito per coprire le spese militari. «A volte il re faceva terrorismo psicologico e paventava incursioni feroci dei turchi, che una volta sbarcati rapivano uomini e donne, e così i baroni cedevano e votavano a favore dei finanziamenti». Ovviamente, a loro volta, i baroni chiedevano contributi ai loro vassalli, «però in questa tassazione a cascata il popolo napoletano aveva il suo tornaconto», e qui starebbe la chiave di volta degli studi di D'Agostino, la dimostrazione che i parlamenti partenopei abbiano fatto del bene concreto alla città: «In cambio delle sovvenzioni, iniziavano le negoziazioni in diversi ambiti e alla fine il re doveva accettare le richieste che gli venivano avanzate, e spesso riguardavano il miglioramento delle condizioni di vita della gente». 

I napoletani avrebbero chiesto, e ottenuto, fra le altre cose, il miglioramento dei servizi del Palazzo degli Studi, ossia dell'università Federico II, l'acquisto di edifici da destinare a uso civile, come quello che poi sarebbe diventato la chiesa del Gesù. Ancora, di migliorare le strade, a cominciare da via Foria, e rendere sicure le strade di Napoli dalla criminalità di allora, una protocamorra. Poco, certo, vista la miseria in cui era ridotto il popoli, ma almeno era qualcosa. 

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Il Mattino