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Ogni giorno, a Napoli, Lorenzo Marone passa davanti al civico 65bis di via Morghen al Vomero indicato da una pietra d'inciampo come il luogo dove, per i primi e unici sei anni della sua vita, visse il bimbo ebreo napoletano Sergio de Simone, ucciso dalla bestialità nazista. A quel bambino ha scelto di dedicare Sono tornato per te, il suo ultimo romanzo di amore e morte, orrore e coraggio. Il motivo della dedica risiede nella seconda parte di una narrazione cangiante, intima e delicata nelle pagine iniziali, incalzante e straziata nelle successive che sono ambientate in un imprecisato lager nazista. Ed è come se l'architettura stessa del romanzo, sconfinando dalla vita semplice di una tranquilla comunità contadina del Vallo di Diano al luogo più di ogni altro rappresentativo della perdita dell'umano, trasmettesse alla scrittura le sofferenze di uomini e donne catapultati loro malgrado nelle pagine della Grande Storia vergate con il sangue versato dai fascismi.
Con sapienza narrativa Marone governa così un ordito a doppio binario, a rispecchiare due realtà lontanissime: da una parte l'insolita rappresentazione della civiltà contadina meridionale con i suoi rituali e i suoi legami durevoli, dall'altra la descrizione cruda del campo di sterminio. Nelle primissime pagine apparecchia subito per il lettore lo scenario da romanzo storico in cui l'invenzione letteraria andrà a incastrarsi e il particolare che lo alimenterà: la passione delle SS per la boxe, praticata nei lager con incontri su ring montati nottetempo, tra prigionieri prosciugati dalle privazioni e kapò naturalmente destinati alla vittoria.
Uno dei boxeur obbligati è Cono Trezza (detto Galletta per il suo carattere impulsivo), colto nel momento decisivo di un incontro impari che deciderà della sua vita. Poi con abile scarto narrativo arretriamo nel tempo e lo ritroviamo prima della deportazione, nel suo tranquillo paese, anch'esso immaginario ma sintesi di due località care a Marone.
Il primo dei due fili con cui si tesse la trama del racconto è quello di una storia d'amore classica e romantica.
Un nuovo, serrato scarto nel racconto fa procedere la storia fino al 1943, quando Cono dopo l'8 settembre sfugge all'esercito del Reich diventato nemico, entra in contatto con i partigiani ma è deportato nel campo di sterminio tedesco tra i «politici». E lì vive una situazione non dissimile da quella degli Imi, gli internati militari italiani che dopo l'armistizio si rifiutarono di arruolarsi nell'esercito di Salò. Qui si dipana il filo della parte più bella e intensa del racconto in cui Marone mostra la vita nel lager: le selezioni, gli stenti, l'impiego in lavori come la rimozione del «Dreck», «che in tedesco significa sterco, così erano chiamati i cadaveri lasciati a marcire sul selciato». Però Cono ha il vantaggio di saper boxare, e soprattutto combatte per poter tornare dalla ragazza amata. Quell'abilità gli procura un po' di cibo e il sostegno dei compagni che vedono il lui il loro riscatto. Fino al giorno fatale in cui si troverà di fronte a un antagonista temibilissimo, a un drammatico bivio e a dover rispondere al supremo comandamento della sopravvivenza...
Una folla di personaggi minori popola la storia: tra questi, oltre al compagno di prigionia Palermo, risaltano il professore, capace di neutralizzare almeno un po' la disperazione con la ricerca ostinata della bellezza; il detenuto francese che intrattiene per giorni i compagni di baracca con l'evocazione del suo amore per Cecile, donna in realtà inesistente; il campione Piuma, che svela a Cono la sua verità: «Si lotta per vincere la paura, non il tuo avversario». Viene il momento in cui tutto sembra perduto, l'inumano sembra aver avuto il sopravvento. Cono pensa che «erano riusciti a prendersi di lui il grasso, i muscoli, la pelle, l'anima. Alla fine a trionfare sarà l'amore, Marone sembra dirci che solo quello è l'unico antidoto alla barbarie. E ci fa pensare, guardando alle due guerre che dilaniano questo tempo, che proprio ne abbiamo smarrito la strada.
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