Ho conosciuto Massimo Bonelli, salernitano, classe 1974, tra fine anni Novanta ed inizio 2.000, era tra gli organizzatori del piccolo festival alternativo ebolitano...
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Davvero il digitale ha salvato la musica, Massimo?
«Parlo di fatturato, non di qualità. Nel 2014 l’industria discografica ha toccato il fondo, l’anno successivo - siamo in Italia - è ripartita, dicendo addio al concetto di disco e puntando tutto sullo streaming. Thegiornalisti, Ghali, Liberato, ma anche producer come Dario Faini, alias Dardust sono alcuni degli esempi che faccio nel mio manuale, tra i consigli per chi vuole suonare oggi, immaginandosi proiettato nel futuro, piuttosto che rimpiangendo il passato».
Hai messo le mani avanti, ma tra indie e trap sembra contare solo il successo, il numero di visualizzazioni e di fan, non il contenuto. Non sembrano ancora emersi nuovi De André.
«Bisogna aspettare, forse il consumo veloce non aiuta la nascita di proposte di spessore, ma Coez e Brunori Sas non sono meteore. E, poi, la tecnologia detta la musica che veicolerà: David Byrne in un suo libro ricorda che l’introduzione del grammofono pensionò Puccini e Verdi, servivano brani che potessero entrare in un 78 giri, 4 minuti, altro che opere liriche».
Parliamo di numeri: un milione di visualizzazioni quanto vale?
«4-5.000 euro, da dividere per artistia, casa discografica, piattaforma e quant’altro. Insomma a un’artista arriveranno mille euro, poi dipende dal singolo contratto».
Non sarà un rapporto sbilanciato?
«Certo, perché si è conservato il rapporto antico di quando le case discografiche investivano sugli artisti e la promozione costava tanto. Oggi le etichette intercettano artisti già pronti al lancio e spendono molto meno. Bisognerebbe invertire le proporzioni».
Ipotizzi la musica al tempo del G5 e del G6, ma i musicisti tirano la cinghia, e non solo per la serrata dettata dal coronavirus.
«È vero, ma siamo nell’era del precariato e i numeri dicono che non va così male, a parte l’Sos di questi giorni di paura. La gioventù che vive sempre connessa ha bisogno dei concerti per provare esperienze reali ed il fronte del palco è diventato il principale momento di business. Ci sono meno Michael Jackson e Prince, ma più Gazzelle e Sfera Ebbasta, meno milionari e più artisti che vivono bene».
Ma una «Purple rain» quando ce la regaleranno le nuove star dell’it pop?
«Stiamo a vedere, anzi a sentire, tanto le tecnologie esistono, chi non le usa resta indietro. Mai avremmo pensato di avere a disposizione in ogni momento, in ogni luogo, così tanta musica come quella che contengono - si fa per dire - oggi i nostri smartphone e i nostri tablet. Mai avremmo pensato di poter registrare un disco con pochi euro e il nostro pc».
Così muoiono gli studi di registrazione.
«Sono morti anche gli altiforni, le industre siderurgiche. L’importanza non sta nel supporto musicale o in come si registra ma in cosa si registra, nella musica. E quella, in Italia, sta bene in salute. Come, coronavirus permettendo, proveremo a dimostrare anche al prossimo Primo maggio». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino