Chi dice che il giornalismo è «ormai» incompatibile o avverso alla scrittura letteraria si sbaglia: lo dimostra in modo evidente La pelle di Napoli di Pietro...
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E allora nella Pelle di Napoli davanti al lettore incuriosito, sorpreso, divertito e intristito sorgono via Foria che si avvia alla decadenza, ma in cui c’è il giardino-frutteto dove Domenico Cirillo, il medico reale e il rivoluzionario del 1799, studiava le erbe medicinali; la Duchesca che non è più il regno del pacco e del paccotto ma degli ideogrammi; la vicenda del Borgo Orefici dove un tradizione antichissima sembra proiettarsi in un futuro artigianale sensato e nuovo; l’altra Capodimonte, come un mondo dentro un mondo; gli sfasci della Maddalena; i casalesi nel bel mezzo di Posillipo; il Cavone con gli indiani fanatici del polo e del cricket; il melting-pot delle prostitute; le migrazioni interne all’Anticaglia; la Napoli turistica di Spaccanapoli e ancora e ancora. E a leggere i nomi sembrerebbe il solito brulichio folclorico del mordi e fuggi pseudo-giornal-tele-letterario: ma nella Pelle di Napoli il brulichio è letterale, e schiude davanti a noi una ricchezza della realtà per cui un pezzo su Forcella può attaccare parlando del pane: «A Forcella c’è chi ha capito che a fare il pusher di rosette e panelle si guadagna forse meglio che a spacciare droga... È, a smentita dei luoghi comuni sulla scarsa capacità lavorativa dei giovani napoletani, una forma spontanea di imprenditoria, fatta con pochi mezzi e molta fatica...»: continuando con un incrocio da manuale tra intervista, reportage e occhio letterario, mostrandoci qualcosa che non conoscevamo o a cui guardavamo distrattamente.
Treccagnoli si è accostato ai tasselli consumati e non sempre combacianti del puzzle-Napoli con pazienza, provando a restituire non «la» realtà della città ma «le» realtà della città, lasciando che quei tasselli parlassero da soli quando volevano parlare e provando a stanarli o a guardarli «di sbieco» quando si nascondevano. È per questo che in La pelle di Napoli ci sono Domenico Cirillo e Bartolomeo Capasso e molte altre tracce della storia profonda della città, ma senza la stucchevole patina da bel tempo che fu in cui la lode della nobilissima città o della bella giornata diventano il sipario ideologico che nasconde la verità: ma allo stesso tempo, e anche nei luoghi più cupi, come nel pezzo su Vigliena come Gotham City o in quello su piazza Mercato, dove sembra di toccare con mano la decadenza, non c’è l’uso soddisfatto e quindi osceno del folclore dello sfascio. Chi legge non ha bisogno di pensare in ogni momento se è d’accordo o in disaccordo: siamo incuriositi dai fatti, e sospendiamo il giudizio, per pensare o ripensare ai fatti. E anche la scrittura di Treccagnoli, da giornalista attento che però sa anche ritmare le sue pagine, è mimetica verso l’oggetto: frantumata e spicciola a tratti, più sofferta e sensibile in altri, scanzonatamente nera e ironicamente triste: come se volesse scomparire per far parlare facce e luoghi, e attraverso di loro dar voce alla passione contraddittoria per questa città assurda e magnifica.
Parliamo spesso su queste pagine di uno sguardo totalitario che viene posto su Napoli, uno sguardo estetizzante che occulta la verità e impedisce l’atto del conoscere, che è sempre un conoscere «di nuovo»: La pelle di Napoli va in direzione opposta a quello sguardo totalitario, e fa venir voglia di tornare a guardare e ad ascoltare l’inesauribile Città-Mondo. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino