Nell’incertezza storica sull’arrivo degli ebrei in Campania, a tracciare un legame, stavolta certo, fra il Vesuvio e Gerusalemme, ci pensa il libro IV giudaico degli...
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A tracciare un quadro di grande interesse sulla presenza ebraica in Campania è Giancarlo Lacerenza, che firma il capitolo Dal Vesuvio a Venosa, gli Ebrei in Campania e in Basilicata del catalogo edito da Mondadori Electa sulla mostra «Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni» allestita a Ferrara presso il Museo nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah in occasione della sua inaugurazione, tenutasi alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Il Meis, questo l’acronimo, offre al visitatore un viaggio nei primi mille anni dell’Italia ebraica con un racconto curato da Anna Foa e Daniele Jalla, oltre che dallo stesso Lacerenza. Oltre duecento oggetti preziosi, fra i quali venti manoscritti, sette incunaboli e cinquecentine, diciotto documenti medievali, quarantanove epigrafi di età romana e medievale, e centoventuno tra anelli, sigilli, monete, lucerne e amuleti, poco noti o mai esposti prima, provenienti dai musei di tutto il mondo: dalla Genizah del Cairo al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dai Musei Vaticani alla Bodleian Library di Oxford, dal Jewish Theological Seminary di New York alla Cambridge University Library.
Le prime tracce di una reale frequentazione giudaica in territorio campano, spiega Lacerenza, arrivano da Puteoli, grande centro mercantile che ben prima di Ostia svolse per Roma la funzione di porto annonario e di approdo per uomini e merci provenienti da ogni parte del Mediterraneo.
Parliamo degli anni intorno al 40, con l’arrivo del filosofo Filone e di altri membri della gerousìa giudaica di Alessandria con l’obiettivo d’incontrare Caligola, il quale s’intratteneva spesso nella vicina Baia.
Le testimonianze risalenti al primo secolo sono comunque assai difficili da interpretare, quando non già fraintese. «Il graffito latino in cui sono stati letti i nomi delle città di Sodoma e Gomorra», spiega Lacerenza, «di cui restano poche lettere, ha buone possibilità di essere stato tracciato ben posteriormente all’eruzione; le poche anfore contenenti vino “giudaico”, secondo il titulus greco già d’incerta lettura e oggi evanido, può darsi che non fossero affatto destinate a clientela locale; e l’enigmatico poinium cherem seguito da due pentacoli, inciso a media altezza nel corridoio d’ingresso di un’abitazione privata, ha più del graffito apotropaico dell’anatema ebraico lanciato sulla città: come volevano i suoi primi editori e come la coincidente allusione a Sodoma e Gomorra lasciava a suo tempo interpretare».
Indizi e suggestioni, quindi, che lasciano presupporre, più che una reale presenza ebraica in area campana, una «conoscenza di cose ebraiche» da parte dei locali. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino