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“L’isola ti fotte”. E lo fa proprio nel momento in cui “ti senti di essere davvero felice in questo pezzettino di terra sul mare, è lì che ti stanno fottendo a sangue”. Oppure “Ma poi l’isola fa il suo gioco, ti afferra, e t’inghiotte e sopisce ogni inquietudine”. Cosa è un’isola? Una nave “perennemente all’ancora, sbarcarvi ti dà sempre l’intrigante sensazione che, miracolosamente, nulla di sgradevole potrà mai accaderti”, dunque una palese trasfigurazione dell’Eden, o una prigione, dove il mare “cresce come il rancore”, il luogo della malinconia e dell’impossibilità di fuga, che se avviene è comunque colpevole?
I personaggi della raccolta di racconti “Vagamente Procida” (Graus) di Antonio Carannante, che dell’isola è assessore nella vita amministrativa e cantore in quella di ogni giorno, nel luogo caro a Elsa Morante nascono e tornano. Scoprono Procida e ne scrivono, la osservano con nuovi occhi e qualche volta la maledicono. “Quell’isola era sostanzialmente smarrimento” dice il protagonista di “Il pomeriggio più lungo”, la penultima delle storie. Possono amarla e odiarla, anche al contempo, ma sanno che l’isola, e soprattutto un luogo come l’isola di Arturo, continuerà a segnare le loro vite, lo vogliano o meno.
L’autore ha messo come sottotitolo al volume “Guida inaffidabile sulle tracce dell’isola” e già questa è una dichiarazione di intenti.
Uno smarrimento davanti all’isola che cambia, pur provando a restare sé stessa. La guida inaffidabile si rivela presto un documento narrativo degli ultimi tempi in cui il luogo immobile e affezionato alla propria immutabilità cede, dopo una valorosa resistenza, al nuovo millennio. Procida di cui si parla in tv e Procida dove i telefoni non prendono bene, Procida scoperta dai turisti e Procida dalle vie anguste per i taxi, Procida senza ospedale e Procida sui social, da capitale.
Dei vari racconti, tutti gradevoli, tutti di pregevole confezione, colpisce il primo, che è un manifesto di ciò che il lettore troverà nel volume: un gioco “en travestì” ed ecco che l’autore si trasforma nella scrittrice incaricata di scrivere dell’isola. Possono seguire gli altri, a partire dalla storia dell’attore inquieto, lo stesso che ama i film che dopo pochi giorni non si trovano più in sala e perciò immagina di realizzare proprio a Procida una rassegna di pellicole orfane del cinema, che si batte perché l’isola abbia il proprio nosocomio. Dopo qualche pagina si capisce che il riferimento è a Libero De Rienzo, scomparso da poco in qualche deandreiana “storia sbagliata”, i cui occhi dolci e l’amore per il posto gli isolani ricorderanno per sempre. Poi il comandante che, nota giustamente Filippo La Porta nell’introduzione, sembra uscito da La linea d’ombra di Conrad o a scelta da “I muscoli del capitano” di Francesco De Gregori; in pieno fortunale dice: “Ordino di mantenere saldo il timone al centro e proseguiamo. Sono diffidente, io”. Della storia di Vincenzo si apprezzano i passaggi descrittivi, del già citato “Il pomeriggio più lungo” quello che l’autore felicemente chiama l’oblio del traghetto: “Prima dell’estate la gente che parte per le isole non è molta, fatta eccezione di qualche viaggiatore, spesso straniero, e così ci si può prendere anche la libertà di occupare più posti e farsi baciare dal sole in pieno, spesso lasciandosi andare in un sonno leggero. (…) E pensare che c’era chi lo prendeva per andare al lavoro tutti i giorni”.
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