Covid a Napoli, l'odissea dei dializzati: «Mancano le ambulanze, bloccati nei centri per ore»

Covid a Napoli, l'odissea dei dializzati: «Mancano le ambulanze, bloccati nei centri per ore»
Ciro ha 92 anni, è in dialisi da dieci e tre volte a settimana sparisce. Esce di casa per andare a sottoporsi al trattamento e non si sa quando torna. E non perché...

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Ciro ha 92 anni, è in dialisi da dieci e tre volte a settimana sparisce. Esce di casa per andare a sottoporsi al trattamento e non si sa quando torna. E non perché lo decida lui, ma perché nessuno lo riaccompagna a casa. I suoi familiari si mettono a telefono, chiamano l’Asl e il centro o l’ospedale dove avviene la dialisi e quasi sempre ricevono la stessa risposta: «Stiamo aspettando che l’ambulanza lo prelevi e lo riporti a casa». 

Il dramma di Ciro, residente a Napoli, zona Poggioreale, è lo stesso di migliaia di altri dializzati. Una dramma nel dramma perché si è acuito in questi ultimi mesi a causa dell’emergenza coronavirus, anche se va avanti da oltre un anno, precisamente da quando il servizio di trasporto dei dializzati è gestito dal 118. Prima se ne occupavano ambulanze private che stipulavano una convenzione con la Regione. Ogni paziente, infatti, deve essere prelevato presso la sua abitazione e poi riportato a casa da un’ambulanza. È il protocollo. L’ambulanza è necessaria soprattutto al ritorno, perché i dializzati dopo la terapia sono sfiniti, duramente provati da un processo di depurazione del sangue che per loro è indispensabile ma che li debilita moltissimo. Anche se volessero, sarebbe impossibile per loro tornare a casa da soli. Con l’aumento dei casi di infezione da covid e, soprattutto, dei ricoveri, quelli del 118 non ce la fanno più. Vengono chiamati in continuazione, corrono da una parte all’altra della Campania e spesso a farne le spese sono proprio i dializzati, che devono aspettare negli ospedali o nei centri di analisi, peraltro in isolamento proprio per evitare che anche loro vengano contagiati. Aspettando anche sei ore, a volte anche otto.

Il problema si era già presentato nel corso della prima ondata, è andato avanti con la seconda ed ora è tornato in maniera prepotente. «Purtroppo mio padre abita in un condominio al secondo piano senza ascensore e quindi i volontari e gli infermieri, ai quali va sempre il nostro ringraziamento e riconoscimento per quello che fanno, sono costretti a trasportarlo a braccia su una sedia ortopedica, sia nella fase di discesa da casa che di risalita», dice la figlia di Ciro. E questo è il primo ostacolo. Al ritorno, poi «si manifestano sistematicamente copiosi ritardi rispetto agli orari programmati. Mio padre nei giorni di  dialisi spesso è soggetto a uno stress di 8-9 ore tra attese e dialisi, senza sottolineare che dopo la dialisi il paziente ha solo bisogno di riposo e assistenza dalla famiglia e non aspettare ore in condizioni molto precarie». 

Anche la moglie di Antonio, 75enne di Napoli, racconta la stessa cosa: «Quando la dialisi finisce in tarda mattinata, intorno alle 12, mio marito torna a casa non prima delle 16. A volte chiamo direttamente il 118 per sapere perché non torna e non ricevo risposte, ma mi rendo conto che anche loro sono oberati di lavoro, le chiamate per i casi di covid sono moltissime. È il sistema che deve cambiare». Peraltro, a volte i dializzati positivi o in quarantena hanno difficoltà a trovare una struttura dove sottoporsi alla terapia: mesi fa a Palma Campania un cittadino in isolamento fu scortato dai carabinieri fino a San Paolo Belsito, dove fu aperto un centro di analisi di domenica, perché non si trovavano altri posti dove portarlo. 

Della questione si sta occupando l’Aned, Associazione Nazionale Emodializzati Dialisi e trapianto che dal 1972 rappresenta e tutela nefropatici dializzati e trapiantati. Quelli di Aned hanno scritto a De Luca e al ministro Speranza più volte. Spiega la segretaria regionale Luisanna Annunziata: «Da tempo denunciamo questo stato di cose, che ora col covid è diventato drammatico. Non accusiamo nessuno, gli operatori del 118 fanno del loro meglio, ma la situazione è insostenibile. A questo punto, l’unica soluzione è un piano vaccini per nefropatici, cominciando immediatamente con le persone in dialisi, i malati cronici in attesa di trapianto e le persone trapiantate di tutti gli organi e tessuti. E poi non si devono dimenticare i donatori viventi che hanno donato un rene o una parte del fegato a scopo di trapianto e i malati cronici nefropatici non in dialisi. Ma bisogna fare presto». 

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Il Mattino