Ciro ha 92 anni, è in dialisi da dieci e tre volte a settimana sparisce. Esce di casa per andare a sottoporsi al trattamento e non si sa quando torna. E non perché lo decida lui, ma perché nessuno lo riaccompagna a casa. I suoi familiari si mettono a telefono, chiamano l’Asl e il centro o l’ospedale dove avviene la dialisi e quasi sempre ricevono la stessa risposta: «Stiamo aspettando che l’ambulanza lo prelevi e lo riporti a casa».
Il dramma di Ciro, residente a Napoli, zona Poggioreale, è lo stesso di migliaia di altri dializzati. Una dramma nel dramma perché si è acuito in questi ultimi mesi a causa dell’emergenza coronavirus, anche se va avanti da oltre un anno, precisamente da quando il servizio di trasporto dei dializzati è gestito dal 118.
Il problema si era già presentato nel corso della prima ondata, è andato avanti con la seconda ed ora è tornato in maniera prepotente. «Purtroppo mio padre abita in un condominio al secondo piano senza ascensore e quindi i volontari e gli infermieri, ai quali va sempre il nostro ringraziamento e riconoscimento per quello che fanno, sono costretti a trasportarlo a braccia su una sedia ortopedica, sia nella fase di discesa da casa che di risalita», dice la figlia di Ciro. E questo è il primo ostacolo. Al ritorno, poi «si manifestano sistematicamente copiosi ritardi rispetto agli orari programmati. Mio padre nei giorni di dialisi spesso è soggetto a uno stress di 8-9 ore tra attese e dialisi, senza sottolineare che dopo la dialisi il paziente ha solo bisogno di riposo e assistenza dalla famiglia e non aspettare ore in condizioni molto precarie».
Anche la moglie di Antonio, 75enne di Napoli, racconta la stessa cosa: «Quando la dialisi finisce in tarda mattinata, intorno alle 12, mio marito torna a casa non prima delle 16. A volte chiamo direttamente il 118 per sapere perché non torna e non ricevo risposte, ma mi rendo conto che anche loro sono oberati di lavoro, le chiamate per i casi di covid sono moltissime. È il sistema che deve cambiare». Peraltro, a volte i dializzati positivi o in quarantena hanno difficoltà a trovare una struttura dove sottoporsi alla terapia: mesi fa a Palma Campania un cittadino in isolamento fu scortato dai carabinieri fino a San Paolo Belsito, dove fu aperto un centro di analisi di domenica, perché non si trovavano altri posti dove portarlo.
Della questione si sta occupando l’Aned, Associazione Nazionale Emodializzati Dialisi e trapianto che dal 1972 rappresenta e tutela nefropatici dializzati e trapiantati. Quelli di Aned hanno scritto a De Luca e al ministro Speranza più volte. Spiega la segretaria regionale Luisanna Annunziata: «Da tempo denunciamo questo stato di cose, che ora col covid è diventato drammatico. Non accusiamo nessuno, gli operatori del 118 fanno del loro meglio, ma la situazione è insostenibile. A questo punto, l’unica soluzione è un piano vaccini per nefropatici, cominciando immediatamente con le persone in dialisi, i malati cronici in attesa di trapianto e le persone trapiantate di tutti gli organi e tessuti. E poi non si devono dimenticare i donatori viventi che hanno donato un rene o una parte del fegato a scopo di trapianto e i malati cronici nefropatici non in dialisi. Ma bisogna fare presto».