Don Mimmo Battaglia arcivescovo di Napoli: «Città sotto assedio, serve una rivoluzione culturale per sconfiggere i clan»

Don Mimmo Battaglia arcivescovo di Napoli: «Città sotto assedio, serve una rivoluzione culturale per sconfiggere i clan»
Don Mimmo, da circa venti mesi è a capo della Curia di Napoli. Se dovesse fare un bilancio di questo primo periodo da vescovo quale sarebbe? ...

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Don Mimmo, da circa venti mesi è a capo della Curia di Napoli. Se dovesse fare un bilancio di questo primo periodo da vescovo quale sarebbe?


«Più che a capo della Curia mi sento a servizio della Chiesa partenopea, della gente, della città, di tutta la diocesi. Ed è questo il criterio unico di ogni bilancio, quello con cui cerco di capire se la mia vita, e quella della Chiesa di cui sono vescovo, sta andando nella giusta direzione. Sono chiamato, anzi siamo chiamati, a servire con gioia e dedizione la causa del Vangelo che in fondo è la causa dei poveri, degli ultimi ma anche quella di tutti: credere e vivere il Vangelo significa servire il bene, senza escludere nessuno. Il mio bilancio, per ora, è che ho ricevuto dai poveri, e dagli ultimi di Napoli, più di quanto abbia donato. Spero di compensare in futuro».

Città assediata dalla criminalità dove la sregolatezza di giovani delinquenti è all'ordine del giorno: l'ultima aggressione a un ragazzino risale a qualche giorno fa. E poi scippi, rapine, turisti nel mirino delle gang. Recentemente ha usato un'espressione forte: stanno uccidendo Napoli. La città è senza speranza?
«Assolutamente no. Napoli è un serbatoio di vita, di resistenza. Solo che la speranza va organizzata, messa in rete: a un certo punto deve concretizzarsi in segni comunitari e non solo individuali. Ecco, direi che la speranza dei tanti napoletani che ogni giorno resistono deve diventare una speranza comunitaria, sociale, in grado di generare rivoluzioni pacifiche di bene e giustizia».

Da una sua idea è nato il Patto educativo contro la dispersione scolastica e con l'obiettivo di tenere i ragazzi lontano dalla criminalità. Un patto siglato insieme con i ministri Bianchi e Lamorgese. Che risultati ha prodotto? E quali sono i progetti in campo per i prossimi mesi?
«Il Patto non è un protocollo firmato. L'incontro di Nisida con i ministri e il sindaco è stato senz'altro un momento importante, una tappa in cui il governo, nazionale e locale, ha preso coscienza dell'emergenza educativa, ma il Patto è un processo culturale capace di ridestare il noi in chi si occupa di educazione, superando gli individualismi e dando vita a una rete educativa solida. Dopo un primo periodo di ascolto e di preparazione ufficiosa, lo scorso dicembre abbiamo fatto delle proposte. Alcune già recepite dal Governo, altre invece richiedono un lavoro certosino dal basso. In questi mesi stiamo infatti preparando quei territori dove partiranno le sperimentazioni. In che modo? Attraverso la creazione di tavoli educativi affinché tutti coloro che si occupano di educazione si confrontino per superare stili competitivi e imparare a cooperare. I referenti territoriali che ho nominato - un prete, una religiosa e un laico -, stanno già lavorando. Cominceremo in tre zone: a ovest, a est, e in centro. Però è chiaro che in educazione i tempi non sono mai brevi, richiedono la pazienza necessaria per attendere i frutti».

Giovani in primo piano dunque, ma - come lei spesso ha ribadito - esiste un problema di modelli educativi troppo spesso sbagliati, a cominciare da quello genitoriale.
«Il problema non sono mai i bambini e i ragazzi ma gli adulti. Viviamo in un tempo di eterna adolescenza, in cui si è focalizzati più sull'apparire che sull'essere, in cui ci si schiaccia sul presente senza concepire un progetto più ampio. E i social, con la loro modalità clicca e vai oltre ne sono l'emblema. Ma ciò che vale sullo schermo di un cellulare non vale nella vita reale ed è disastroso nelle relazioni quotidiane. Occorre un'inversione di marcia e come Chiesa, attraverso i nostri cammini formativi, cercheremo di impegnarci in tal senso».

Sempre in tema di modelli inadeguati, se non dannosi, c'è chi punta l'indice contro serie tv come Gomorra in grado - dicono alcuni educatori - di insinuarsi facilmente nei pensieri dei ragazzi più fragili che non hanno gli strumenti necessari per resistere a modi di vivere illegali e violenti presentati invece come eroici e vincenti. È così?
«Qualche esperto di psicologia e di comunicazione dice che diversi studi dimostrano che se un soggetto in età evolutiva è esposto a immagini televisive violente, la sua aggressività è destinata a manifestarsi con più forza. E la mia esperienza, quando, ad esempio, ho visitato istituti di pena per minori, è che il rischio di emulazione c'è ed è serio. Alcuni ragazzi sembravano piccoli Genny Savastano nei modi, nell'atteggiamento. Altri citavano testualmente alcune espressioni della fiction. Ecco, su questo occorrerebbe una riflessione. D'altro canto Gomorra, in parte, fotografa un pezzo di realtà, una realtà minoritaria ma pur sempre tale. È su quella che bisogna lavorare».

Nella città e nell'area metropolitana di Napoli pochi sono i centri e tante le periferie alle quali, dal suo insediamento, sta dando grande attenzione. Come proseguirà la sua azione pastorale?
«Continuando a porre l'accento sulle periferie, non solo quelle geografiche, ma anche le periferie esistenziali, ai margini. Quando si curano i margini si cura anche il centro. Personalmente non credo molto nella distinzione centro-periferia. Almeno per Napoli sento di poter dire che ci sono quartieri geograficamente centrali ma esistenzialmente periferici e viceversa».

Don Ciotti l'ha definita una guida spirituale capace di immergersi nella storia delle persone, a cominciare dalle più invisibili, povere, dimenticate. Come sta gestendo la Curia di Napoli l'emergenza povertà?
«Don Ciotti è troppo buono. Per quanto riguarda la povertà e le emergenze, ho trovato una Chiesa attenta. E ora questo cammino sta continuando. Insieme. In modo comunitario: vescovi, presbiteri, Caritas, parrocchie. Stiamo lavorando a potenziare quanto già c'è e a comprendere le nuove necessità. Proprio nei giorni scorsi sono stato in una parrocchia a inaugurare una Casa per donne migranti, profughe, che scappano dal dolore della guerra, e per i loro bambini: un cammino condiviso tra vescovo, parrocchia, Caritas diocesana, comune di Napoli. Le emergenze non si affrontano mai in solitaria».

I pastori, il loro ruolo nella vita della gente. Lei nasce prete di strada, convinto che il messaggio di Dio si debba trasmettere anche, e forse soprattutto, consumando le suole delle scarpe. Qual è la prima cosa che ha chiesto ai suoi sacerdoti quando è arrivato a Napoli?
«Sono un prete. Un prete e basta. Non credo alle etichette: di strada, di parrocchia, di oratorio. Un prete è un uomo che è chiamato a annunciare la bellezza del Vangelo e la tenerezza di un Dio che si serve anche delle fragilità per far donare luce e vita. Per questo il prete, ovunque si trovi, è sempre un uomo afferrato da questa Parola di tenerezza, una Parola che lo porta a uscire da se stesso, dalle comodità, a volte perfino dal tempio, per mettersi a servizio della fede, della speranza e dell'amore. È questo che chiedo ogni giorno a me stesso, e che ho sempre chiesto ai preti».

Invece che cosa chiede al mondo della politica, alle istituzioni? Da subito ha avviato un percorso di collaborazione con Gaetano Manfredi.
«Con il sindaco c'è un rapporto rispettoso e amicale. Credo che un vescovo possa, debba, chiedere alle istituzioni di occuparsi degli ultimi. E nel nostro territorio sono davvero tanti: bambini, anziani, migranti, disoccupati. Ma c'è anche una cosa che siamo noi a dover offrire alle istituzioni: la disponibilità a camminare insieme per il bene dell'uomo e della comunità».

Confide, surge, vocat te, Coraggio, alzati, ti chiama. Ha definito questa frase del Vangelo il suo motto episcopale. Qual è il messaggio da cogliere?
«È un verso evangelico, la parola che ogni giorno il Signore rivolge a me, mendicante d'amore come il cieco di Gerico. È la parola che ogni giorno ha cadenzato i miei passi di prete in ogni incontro con i ragazzi della mia comunità e con le persone che ho avuto la gioia di conoscere. È un invito a cogliere i segni della chiamata del Signore in ogni evento, luogo, situazione. È uno stimolo a sottrarsi alla sedentarietà e ad avere l'entusiasmo di alzarsi e mettersi in cammino. Prima di essere un messaggio per gli altri, direi che è un promemoria per me».

Dalla diocesi di Cerreto a quella di Napoli, che cosa le manca di quel luogo dove ha trascorso quattro anni della sua vita?
«Ogni esperienza porta con sé grande ricchezza. Custodisco nel cuore volti, storie, nomi. Persone che mi hanno donato tanto e a cui spero di aver restituito almeno un po' di quanto ho ricevuto. A mancare è sempre ciò che è assente. Ma non è questo il caso: i volti e i nomi incontrati in quegli anni sono con me, dentro di me».

Nell'avvicendamento ai vertici delle parrocchie napoletane che si appresta a definire, c'è qualche nuovo progetto in campo? Che cosa dovrebbero fare i parroci per non deludere le aspettative dei fedeli?
Gli avvicendamenti sono una cosa normale, non rientrano in nessun progetto particolare se non quello di essere una Chiesa a servizio della gente, dinamica, capace di non irrigidirsi su schemi prefissati ma di riorganizzarsi. Ho tanta gratitudine per i parroci della nostra diocesi. Il loro amore per la gente, per i piccoli è per me un enorme insegnamento. Non è la paura di deludere la gente che deve muovere le nostre scelte ma il desiderio di servirla e di annunciare il Vangelo. Ed è questo che fanno i tanti parroci napoletani a cui dico grazie, invitandoli a continuare su questa strada».

È vero che ama passeggiare per i vicoli, meglio se in borghese, come un qualunque cittadino?
«Beh, non è una scelta deliberata. Cerco di vivere in semplicità come ho sempre vissuto. Con normalità. E anche il mio rapporto con la città deve essere normale. Un vescovo non può restar chiuso in un palazzo. Deve sentire l'odore dei vicoli, osservare le piazze, incontrare la gente».

Qualche giorno di vacanza se lo concederà per ricaricare le batterie per l'autunno?


«Mi prenderò qualche giorno di silenzio e preghiera. E qualcun altro da passare con la mia famiglia. Ho invitato i miei preti a fare altrettanto. Non lasciamoci tentare dall'efficientismo. Recuperiamo i ritmi umani del vivere. Testimoniamo anche la bellezza di un riposo sano e di una vita capace di fermarsi, contemplando la bellezza che c'è dentro e fuori di noi».  Leggi l'articolo completo su
Il Mattino