Casavola compie 90 anni: «La mia felicità? L'insegnamento»

Casavola compie 90 anni: «La mia felicità? L'insegnamento»
La pacatezza, come le convinzioni di fede cattolica, restano sempre le stesse. A tre giorni dal suo novantesimo compleanno, Francesco Paolo Casavola, il professore di...

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La pacatezza, come le convinzioni di fede cattolica, restano sempre le stesse. A tre giorni dal suo novantesimo compleanno, Francesco Paolo Casavola, il professore di «romanistica» a Giurisprudenza, prima a Bari poi a Napoli dove è stato anche preside della Facoltà, ma anche il presidente della Corte costituzionale dal 1992 al 1995, o del Comitato per la bioetica, fa subito un'osservazione sull'emergenza Covid: «Viviamo un momento storico in cui tutti dipingiamo con le stesse linee comuni il nostro presente e il nostro futuro».


Professore, si sente più saggio a 90 anni?
«Sento di aver raggiunto un traguardo, che non avrei mai immaginato di vivere in un periodo così particolare. Ma la storia ci insegna che le pandemie ricorrono a scadenza secolare».


Che mondo è quello dei suoi 90 anni?
«Il risultato delle vicende dell'ultimo secolo. I giudizi sulla storia si fanno su tempi lunghi».


Che pensa dell'assalto al Congresso americano?
«Ho riflettuto ancora su quanto gli Stati Uniti da decenni siano un modello di riferimento per l'intero occidente. L'Europa ha guardato a quel sistema democratico e economico come un esempio dal secondo dopoguerra. Di certo, ogni democrazia richiede grande lealtà e equilibrio a chi ne è strumento».


Da giurista e storico che ha maturato saggezza, pensa che la democrazia sia in pericolo negli Stati Uniti?
«Proprio perché ne ho viste tante, non lo penso. Il sistema democratico statunitense è saldo, anche per ragioni storiche non ideologiche. Se qualcuno ha perso la testa, non significa che abbia abbattuto radicate convinzioni in una società in possesso di equilibri e controlli che la mettono al sicuro».


Anche in Italia la nostra democrazia è al sicuro?
«Ora più di prima, sono convinto che i 160 anni di storia italiana siano stati molto più drammatici di quanto si voglia far apparire nei libri e sui giornali».


Abbiamo una storia piena di drammi?
«Come non pensarlo, ricordando il faticoso processo unitario, le tragiche due guerre mondiali, o come si sia passati attraverso un violento e sanguinoso conflitto civile che ha preceduto la Costituente».


E la vita repubblicana?
«Anche questi 65 anni sono stati segnati da ricorrenti crisi della classe dirigente. Si è arrivati a parlare di prima, seconda e anche terza Repubblica. Le lacerazioni, le crisi, gli sbandamenti, le incertezze ci hanno accompagnato assai spesso in questi anni».


Siamo il Paese dall'incerta classe dirigente?
«Dovremmo capire che una nuova classe dirigente, da più parti invocata, non può rappresentare gruppi di potere, ma farsi paladina di scelte culturali e valori solidi. La mia generazione ricorda Cuore, un testo che voleva formare i cittadini sul bene comune. Quell'idea è stata poi soppiantata dall'illusione che si potesse fare del feticcio Stato di sapore hegeliano, che assorbe tutto, uno strumento in mano ai partiti. Ne è nata confusione».


La Costituzione ci fornisce ancora valori di riferimento?
«Senza fare retorica, dico che la nostra Costituzione ha cercato di indicare comportamenti quotidiani sull'idea di comunità dai valori condivisi. Un'idea che presuppone adesione convinta».


Invece è un'idea in crisi?
«Sono di formazione e cultura cattolica, questo credo non sia un mistero. Penso che si sia sottovalutata troppo, nella storia dell'umanità, l'importanza della grande vicenda cristiana, come se il progresso fosse stato possibile solo attraverso un'idea di laicità basata sull'interesse. Papa Francesco richiama i valori della fratellanza, che erano contenuti già nella Carta dei diritti dell'uomo nel 1948 dopo le macerie della seconda guerra mondiale. Bisognerebbe ridare forza a questi valori».


Nella sua vita, quale esperienza porta nel cuore?
«L'insegnamento accademico. Vale più una cattedra che un trono, si diceva nell'antichità. E io ne sono stato sempre convinto, perché l'insegnamento mi ha lasciato ricordi e grande ricchezza interiore incancellabili. Il sapere e la ricerca sono le fonti di crescita della civiltà».


Eppure, Benedetto Croce esprimeva riserve e critiche sulla corporazione accademica. Che ne pensa?
«Quando l'accademia si richiude in se stessa, vive fasi di decadenza. Il confronto e l'apertura arricchiscono la cultura e il sapere».


C'è qualche persona, tra le tante che ha incontrato nella sua vita, che le ha lasciato più degli altri un segno?
«Non voglio fare torto a nessuno, perdendomi in nomi. Tutte le mie frequentazioni nel mondo cattolico mi hanno arricchito. Studenti, docenti, monaci, sacerdoti. Ricordo gli incontri in più parti d'Italia, dalle settimane teologiche a quelli a Camaldoli vicino Arezzo. Erano discussioni libere, prive di condizionamenti. Non ho mai pensato che i valori cristiani potessero diventare progetto di un partito unico e di un gruppo di interessi. Mai pensato a una società divisa per classi e ceti. Ho sempre creduto in una cultura che superasse i limiti della partigianeria. Una cultura di dialogo».


Che cosa le ha dato più dolore nella sua vita?
«L'amicizia tradita, quella non spontanea che faceva del calcolo la sua ragione».


E cosa le ha dato più entusiasmo?
«La vita accademica, che oggi bisognerebbe ricondurre a maggiore libertà nelle opinioni e nella ricerca rispetto a gruppi di potere, ma anche la famiglia. Sto molto riflettendo sull'importanza della famiglia, come nucleo sociale di riferimento per i giovani».


Cos'è la vita per lei?


«Un percorso da scegliere nella libertà di coscienza. La coscienza è l'unico luogo in cui l'uomo può discutere con Dio. Fuori dalla coscienza tutto resta confuso. Alla soglia dei 90 anni ne sono sempre più convinto». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino