Napoli, la verità di Di Matteo: «Il boss mi chiese i soldi in pizzeria davanti ai turisti»

Napoli, la verità di Di Matteo: «Il boss mi chiese i soldi in pizzeria davanti ai turisti»
Chiese un anticipo sulla tangente di Natale, lo fece senza mandare emissari o gregari. Lì, in vico Giganti, di sabato pomeriggio, nel pieno del via vai di turisti e...

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Chiese un anticipo sulla tangente di Natale, lo fece senza mandare emissari o gregari. Lì, in vico Giganti, di sabato pomeriggio, nel pieno del via vai di turisti e visitatori del centro storico, si materializzò la poco confortante sagoma di Vincenzo Sibillo, padre dei fratelli Pasquale e Emanuele (quest'ultimo ucciso nel 2015) protagonisti della cosiddetta «paranza dei bambini». Parola di uno dei soci del ristorante Di Matteo, la pizzeria finita nel mirino del racket. Agli atti la testimonianza di un socio della pizzeria Di Matteo, un lavoratore, uno che da anni trascorre l'intera giornata ad infornare pizze e a servire clienti in arrivo a Napoli da tutte le parti del mondo. Un racconto che risale allo scorso 11 marzo e che basta da solo a chiudere il cerchio, almeno per quanto riguarda la questione cautelare, con la rinuncia all'udienza del Riesame. Ma torniamo alle sommarie informazioni firmate dall'ultimo teste nel corso dell'inchiesta sul racket alla storica pizzeria dei Decumani, culminata venti giorni fa negli arresti dello stesso Vincenzo Sibillo (a cui i figli affibbiarono il nomignolo di o ninno), di Giovanni Ingenito, di Giosuè Napolitano e di Giovanni Matteo. Siamo sulla soglia del locale, la scena si svolge nei pressi della friggitoria, in un sabato pomeriggio di tutto esaurito, con lunghe attese per potersi accomodare in uno dei ristoranti più gettonati di Napoli. Prima gli sguardi, poi la richiesta.

 

Spiega il teste: «Voleva 1500 euro, come anticipo della richiesta di Natale. Era lì, all'altezza di vico Giganti, mi fece segno che voleva parlarmi, mi chiese quei soldi». E di fronte alla foto di o ninno, il commerciante non ha dubbi nel riconoscere il volto, le fattezze fisiche dell'estorsore della porta accanto. Indagine dei carabinieri del comando provinciale di Napoli, la svolta dopo gli spari subiti un mese fa dalla pizzeria che nel 1994 ospitò l'allora presidente Usa Bill Clinton. Indagini serrate, al termine delle quali i titolari del locale ammettono di aver sempre pagato il pizzo alla camorra del clan Sibillo, famiglia residente a pochi metri dal locale. Cento o duecento euro le dazioni di denaro, poi le tangenti più sostanziose in occasione delle feste di Natale, Pasqua e Capodanno. Ricordate la frase che spinse la Procura di Napoli a firmare dei fermi a carico dei quattro presunti estorsori? Indagine del pool anticamorra dell'aggiunto Giuseppe Borrelli, i soci si guardarono negli occhi, si confrontarono su cosa dire agli investigatori. Uno di loro disse: «Ci hanno spremuti come limoni...», senza sapere di essere intercettato. Poi il riconoscimento in foto, le carte al Riesame, la rinuncia a sostenere l'udienza. Difeso dai penalista napoletano Riccardo Ferone, Vincenzo Sibillo era stato scarcerato la scorsa estate, dopo aver scontato una condanna per fatti associativi. Vanno invece avanti le indagini sui tre attentati consumati ai danni di altrettanti negozi nello stesso territorio: gli spari contro il ristorante Terra mia dei primi di gennaio, poi la bomba esplosa all'esterno della saracinesca della pizzeria di Gino Sorbillo, gli spari contro Di Matteo. Si indaga sulla formazione di un nuovo gruppo criminale, magari sostenuto dal clan Mazzarella, che ha provato in modo violento a strappare quel che resta della cassaforte del clan Sibillo (a loro volta sostenuti dai Rinaldi) in una guerra di posizione scandita da una sola regola: paura, minacce, ritorsioni ad orologeria.
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Il Mattino