Napoli città ingrata con Domenico Rea. E non solo Napoli, verrebbe da dire osservando come l'Italia lo ricordi, anzi dimentichi. Quindici anni fa il Meridiano...
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
Tutto il sito - Mese
6,99€ 1 € al mese x 12 mesi
Poi solo 4,99€ invece di 6,99€/mese
oppure
1€ al mese per 3 mesi
Tutto il sito - Anno
79,99€ 9,99 € per 1 anno
Poi solo 49,99€ invece di 79,99€/anno
Signora Rea, a chi ha donato le carte di suo padre?
«Al Comune di Sarno, dove nascerà il Centro studi Domenico Rea».
Perché non le ha lasciate a Napoli?
«Ho avanzato tante proposte al Comune per anni, ma non mi hanno mai dimostrato la giusta attenzione, spesso neanche mi hanno risposto. Allora mi sono chiesta perché continuare a umiliare la memoria di mio padre, e mentre vivevo questa crisi di coscienza, consapevole di voler dare comunque un futuro a quel che rimane dell'archivio di mio padre, ho avuto una proposta da Sarno, grazie all'interessamento di Vincenzo Salerno, docente di Letterature comparate a Cassino».
Di quante carte parliamo?
«Dieci faldoni, 5.000 fogli dattiloscritti. Ci sono articoli di giornale, racconti, recensioni di libri e di mostre di pitture, versioni di brani dei romanzi diverse da come poi furono pubblicate. Mio padre copiava tutto a macchina, ribatteva, correggeva e così avanti per settimane, quindi di ogni suoi scritto esistono decine di versioni differenti di singole parti o di frasi».
E il resto dell'archivio?
«Le lettere agli scrittori e gli autografi dei suoi romanzi sono all'università di Pavia, al Centro studi manoscritti. Così ha voluto mio padre, l'aveva messo per iscritto in punto di morte: ha sempre pensato che la città dove è nato e dove si trasferì poi a 28 anni tornando da Nocera Inferiore non gli volesse un gran bene. Sono certa che lui non avrebbe neanche tentato di avanzare qualche proposta a Napoli».
Suo padre come se lo spiegava questo disamore?
«Nei suoi confronti tutto cambiò quando uscì dal Pci, nel 1956. Una decisione che ha pagato tantissimo. Non solo questo, anche il giudizio tremendo della Ortese».
Lei come si spiega il disinteresse attuale delle istituzioni?
«Snobismo? Ma forse non sanno neanche chi era».
E degli editori?
«Questo è un mistero, anche perché all'estero invece vende e lo apprezzano. Quest'anno è uscita la traduzione in olandese di Ninfa plebea».
Anche la figlia di Prisco ha denunciato su queste pagine che gli editori hanno dimenticato suo padre.
«Mio padre e Michele Prisco si somigliavano in quel genere che era il galantuomo napoletano. Mio padre diceva sempre che i napoletani o si agitano e gesticolano, oppure sono del tipo tedesco-londinese e allora risultano severi e compiti».
I dattiloscritti a Sarno e i manoscritti a Pavia. Non le rimane niente?
«Tre diari personali, tantissime fotografie, alcune lettere. Lui era molto disordinato e poco attento a conservare le sue cose. Degli altri colleghi scrittori diceva che si conservavano anche i biglietti del tram».
Che uomo era?
«Umile, autodistruttivo, umorale, fragile, orgoglioso. Non ha mai cercato pubblicità al suo talento, diceva che se uno scrittore vale i suoi libri si vendono, se deve diventare un venditore di sé stesso per farsi leggere non è uno scrittore vero».
E come padre com'era?
«Non facile, però è stato un esempio di rigore e di pulizia. Due volte è andato a colloquio con un mio professore e due volte sono stata rimandata. Non mi ha mai aiutata, neanche nel lavoro, anzi ha perseverato nell'infondermi una mancanza di autostima. Non era un uomo che ti spianava la strada».
Qual era il suo sogno nel cassetto?
«Fare il pianista classico, c'è riuscito mio figlio, diplomato a Salisburgo». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino