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Si concesse con generosità a selfie, autografi, domande di curiosi e giornalisti. Poi, con la sua aria sorniona, lo scrittore anglo-indiano Salman Rushdie disse al suo accompagnatore e traduttore che aveva bisogno di fare una telefonata personale, di indicargli l'uscita di sicurezza e avvisare i presenti di lasciarlo solo e aspettarlo sulla terrazza del museo Madre. Si allontanò di soppiatto, scivolando con la sua andatura placida.
Era il 21 giugno del 2019. Rushdie era stato di recente nominato baronetto dalla regina Elisabetta per meriti letterari e di resistenza alla fatwa. Aveva da poco compiuto 72 anni, gli auguri glieli volle portare di persona l'artista napoletano Francesco Clemente, suo grande amico. Seguii Rushdie con lo sguardo. Lo vidi uscire in via Settembrini. Non doveva fare nessuna telefonata. Si piazzò in mezzo al vicolo e fissò con intensità il palazzo di fronte. I balconi con i panni stesi fuori. Le donne affacciate, indifferenti a lui e alla gente che riempiva il museo. In silenzio, con gli occhialini tondi che gli conferivano quell'aspetto inconfondibile di intellettuale pop, Rushdie sembrava tutto concentrato a intuire chissà quale mistero insondabile che in quel momento stava percependo, lui e solo lui. Pochi minuti e rientrò.
La serata passò tranquilla, solo sul tardi riuscii a parlargli di nuovo. Gli domandai perché aveva passato quei minuti da solo a guardare di fronte. Gli appunti sulle risposte che mi diede non riuscii a metterli nel pezzo già consegnato al giornale. Li ho ritrovati. Mi disse: «La vita che si svolge in strada e sui balconi indica il grado di autenticità di un popolo. Quanto più questo popolo è sincero, poco incline al compromesso e sempre pronto a mettersi in gioco, tanto più vive sotto gli occhi dell'altro. Non ha niente di cui vergognarsi, è limpido e nello stesso tempo spavaldo». Fece una lunga pausa e poi, togliendosi gli occhialini, aggiunse: «Anni fa avevo la fobia dei balconi napoletani, ero convinto che mi potesse cadere in testa di tutto. Oggi penso che siano un fondamentale strumento di comprensione di ogni popolo».
Rushdie ha sempre amato cambiare lo sguardo sul mondo e sulle sue esperienze, lo aveva fatto anche qualche ora prima quando mi aveva confidato che per lui l'impasto di colori e il mescolamento di culture, a Napoli, non era rappresentato simbolicamente dalla pizza, ma dall'aria che si respirava in ogni chiesa e museo della città, «dove la storia era stata continuamente reinventata e le culture straniere portate dai sovrani avevano ceduto di fronte all'impatto con la civiltà napoletana in un impasto che aveva cambiato l'una e l'altra».
Quest'anno, a fine giugno era stato a Capri. Anche in questa occasione, come al Madre, ospite di Antonio Monda per la sua rassegna Le conversazioni.
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Il Mattino