L’iperbole ha la sua efficacia: «Dobbiamo correre ai ripari, se non vogliamo trasformare le nostre carceri in call center». A lanciare l’allarme è...
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Osservazioni che seguono l’ennesimo caso: si chiama Carlo Vollaro il detenuto quarantenne che, pur di non cedere ai controlli, si è tenuto nella pancia per oltre un mese un aggeggio elettronico di otto centimetri per due con tanto di batteria al litio. A raccontare altri dettagli è Ciambriello, che precisa: «Dal 5 novembre stava scontando gli arresti domiciliari, è importante specificarlo. Quando si è recato in ospedale, era a casa». Ma l’assurda vicenda aveva avuto inizio molto prima. «Da un’indagine interna risulta che il 3 ottobre era stata riscontrata la presenza del cellulare. Il detenuto lamentava dolori addominali, così gli è stata prescritta una cura affinché il corpo estraneo venisse espulso. Poiché questo non avveniva, il 25 ottobre i medici di Poggioreale gli hanno prescritto una visita urgente al Cardarelli per la rimozione, ma lui ha rifiutato. Il 5 novembre è uscito dal carcere e ne abbiamo perso le tracce».
Vero, per eludere i controlli si ricorre agli espedienti più fantasiosi: c’è chi un mini-cellulare lo ha perfino occultato in un polpettone. Ma la facilità con cui i minuscoli dispositivi varcano le soglie delle carceri non può non destare sospetti. «Se i telefonini mignon possono entrare in una scarpa o addirittura a mo’ di supposta, uno smartphone non può arrivare dentro senza un sistema di corruzione. Bisogna colpire quello. Per fortuna, ci sono casi in cui gli stessi agenti hanno fatto scattare indagini su colleghi corrotti». C’è, però, anche chi quei controlli non riesce ad aggirarli. È il caso di un detenuto di Secondigliano arrivato nei giorni scorsi a Poggioreale. «Veniva da Salerno. A Napoli gli hanno trovato addosso un telefonino di piccole dimensioni e uno smartphone, ma è riuscito a romperli. Da qui è scaturita una colluttazione con gli agenti», riferisce il garante. «L’anno scorso in Campania sono stati rinvenuti oltre 150 cellulari, vale a dire almeno una quindicina per ogni istituto», dice.
All’aspetto punitivo, Ciambriello affianca una proposta che si potrebbe definire “lenitiva”. «Bisogna aumentare il numero e la durata delle chiamate consentite, eventualmente anche mettendo a disposizione Skype, come si fa a Padova – argomenta -. E si potrebbe istituire un servizio di posta elettronica, come a Rebibbia». Sullo sfondo, tuttavia, si staglia un interrogativo: che cosa alimenta questa sete di parole? Una fisiologica voglia di mantenere un legame con gli affetti o l’esigenza di impartire disposizioni agli affiliati del clan? Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato di Polizia penitenziaria, non ha dubbi: «Nei 190 istituti italiani, secondo i dati del 2017, sono stati ritrovati 937 tra cellulari e sim: quasi due per ogni carcere. Questo significa che per i capi delle organizzazioni criminali è una consuetudine diffusa impartire ordini con i telefonini», spiega Di Giacomo, aggiungendo: «Le baby gang sono telecomandate dai boss in cella. Piuttosto che disquisire sull’allungamento dei colloqui telefonici per i detenuti, è necessario accrescere la sorveglianza». La conclusione ha il sapore di una resa: «Se non si è in grado di stroncare il fenomeno, tanto vale seguire l’esempio della Francia, che ha installato telefoni fissi nelle celle». Leggi l'articolo completo su
Il Mattino