Il rischio calcolato è avere più vaccini

Il rischio calcolato è avere più vaccini
Nell’annunciare la svolta di – tarda – primavera, il premier ha parlato di «rischi ragionati». E non c’è da dubitare che ci abbia...

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Nell’annunciare la svolta di – tarda – primavera, il premier ha parlato di «rischi ragionati». E non c’è da dubitare che ci abbia riflettuto a lungo sopra. Nel dibattito giornalistico il rischio è diventato «calcolato», e subito alcuni dei virologi più accreditati – da Galli a Crisanti – sono sbottati che si trattava di calcoli sbagliati. Tra i due termini, però, c’è una enorme differenza.  Se, infatti, ci si riferisce ai numeri – dei contagi, dei morti, dei vaccini – non c’è dubbio che stiamo ancora ballando.

E, anche alla luce delle incertezze e retromarce dei Paesi che sono messi meglio di noi, dovremmo rinserrare i lucchetti, altro che allentare la presa. Ma – detta nel modo più semplice e brutale – il paese non può più permetterselo. Ed è questo il ragionamento – non il calcolo – che Draghi alla fine ha fatto.

Mai come in questo passaggio appare chiaro che non c’è la quadratura del cerchio. Nessuno può dirlo apertamente. La retorica pubblica impone che ogni intervento si proponga di conciliare la salvaguardia della salute con quella dell’economia. Ma questa illusione, ormai, non regge. Perché non regge la tregua sociale su cui, per quasi un anno, si è basata. Lo si tocca con mano ogni giorno, su due fronti che stanno convergendo, rapidamente e pericolosamente. Il primo è quello della disobbedienza civile.

Come molti governatori si lamentano, le sanzioni arlecchino assomigliano sempre più a delle grida manzoniane. Non vengono rispettate e nessuno può intervenire manu militari, col rischio di far salire ulteriormente la temperatura della piazza. Il secondo fronte, infatti, è quello della protesta aperta da parte delle categorie più duramente e lungamente penalizzate. Ristoratori – con l’enorme indotto delle cerimonie proibite – la variegata e disperata platea degli operatori culturali – un settore per l’Italia strategico sul piano dell’immagine – e il turismo, da cui dipende una quota enorme del nostro Pil. Cui va aggiunto – pervasivo – l’arcipelago dell’istruzione. 

Hanno probabilmente ragione i virologi che sostengono che la riapertura non si basa su alcuna plausibile evidenza sanitaria empirica. Ma i genitori – e soprattutto le mamme – che da più di un anno sono costrette a gestire nidiate di figli in Dad sono fisicamente oltre lo stremo. Molte hanno perso il lavoro, tutte hanno perso da gran tempo i nervi. Sarà forse più complicato tradurre questo tracollo familiare in statistiche, ma non tenerne conto è da matti. Ovviamente, si può sostenere che ci si sarebbe potuti preparare meglio a questa ennesima giravolta. Ma la scuola è lo specchio più fedele della ingovernabilità sociale in cui il Paese sta precipitando. Migliaia di plessi scolastici con organismi deliberanti pletorici, dirigenti quotidianamente alle prese con chat e gruppi whatsapp infuocatissimi, in una disfida infinita tra chi è terrorizzato dai contagi e chi è sfinito dalla fatica.

Di fronte a questo calderone sul punto di scoppiare, Draghi ha fatto una scelta. Politica. Sperando che la fortuna lo aiuti. Che arrivino veramente le vagonate dei vaccini promesse, che Figliuolo riesca a rattoppare le tante falle nella somministrazione, che i cittadini – soprattutto i più giovani – si convincano che non c’è alternativa. Che grazie al vaccino possiamo reggere questa ondata di contagi, e sperare di ritardare la prossima. Utilizzare qualche mese di tregua per fare ripartire il paese, e poi attrezzarci per il prossimo stop. Che, molto probabilmente, arriverà. Auguriamoci il più tardi possibile.

L’unico modo per evitare queste drammatiche montagne russe sarebbe tagliare nettamente i nostri diritti elementari. Alla privacy, agli spostamenti, alla libertà di opposizione. Massimiliano Panarari, ieri su La Stampa, fa un lucido ed impietoso excursus della piega autoritaria che il Covid sta agevolando attraverso la digitalizzazione dei controlli. Alimentando un «totalitarismo soft» basato sul connubio tra i colossi dell’informatica e i governi. È questo il mix che ha consentito – finora – ai Paesi del Sud-est asiatico di contenere l’espansione del virus. In Cina, ma anche in democrazie liberali come Giappone e Sud-Corea. 

Tutti pretendiamo più efficienza nella risposta dei nostri esecutivi. Ma è bene dirsi, senza ipocrisia, che la vera efficienza richiede un livello di governance digitale per la quale siamo doppiamente impreparati. Tecnicamente e democraticamente. Un salto di sistema che impone scelte difficili, e tempi lunghi. Nell’immediato, prendersi qualche rischio diventa un’opzione obbligata. 

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Il Mattino