Scudetto, conto alla rovescia: così la città si veste d’azzurro

Scudetto, conto alla rovescia: così la città si veste d’azzurro
Serpeggia, in giro per Napoli, un’insolita allegria. Capita d’intercettarla in sguardi scambiati tra gente che non si conosce ma ha voglia di condividere un segreto di...

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Serpeggia, in giro per Napoli, un’insolita allegria. Capita d’intercettarla in sguardi scambiati tra gente che non si conosce ma ha voglia di condividere un segreto di Pulcinella, in occhiate di tacita intesa scambiate tra estranei nei mezzi pubblici che sì, come sempre funzionano male, in discorsi captati attraversando strade che sì, per più motivi sono percorsi a rischio, ma adesso il punto non è quello. Il punto è che stiamo covando un sogno fatto speranza e vogliamo viverlo. 

Ce lo vogliamo godere e, com’è scritto in un meme super condiviso, ce lo stiamo “trezziando” una domenica dopo l’altra. Un sogno-speranza trasversale, interclassista, capace di azzerare divisioni, ideologie, visioni del mondo contrapposte. Propiziato dalla nostra squadra di calcio.

Appartenendo io alla schiera degli scaramantici, vorrei evitare clamori prematuri e non nominerò “la cosa”, cioè il pensiero responsabile dell’allegria, pur assistendo con una certa apprensione alla fretta dei seguaci del punto di vista opposto, intenti ad addobbare anzitempo la città con il Gran Pavese azzurro. Dal canto mio ho la bandiera già pronta procurata da mio fratello, capofila del gruppo riunito da me ad ogni partita, ma la esporrò al balcone solo a tempo debito, quando “la cosa”… ci siamo capiti. È questione di napoletana scaramanzia, esercizio nobilissimo evocato con torsione dialettica nella frase marpiona di don Benedetto Croce che faccio mia: non credo alla iella perché crederci porta iella.

Dunque aspettiamo. Godiamocela, “trezziamocela”, quella speranza. E non sembri insolito che perfino persone difficilmente avvicinabili al mondo dei tifosi contraggano ’a malatia, diventando strenui sostenitori del magnifico team di Spalletti. Anche se, siamo sinceri, solo qualche mese fa non l’avremmo detto: chi poteva immaginare che avremmo sostituito così presto grandi amori chiamati Mertens, Koulibaly, Insigne, Fabian Ruiz? Ma poiché spesso proprio la tifoseria più accanita ha la memoria corta, bene fa chi ricorda gli insulti lanciati da ultras (ma condivisi da molti) a Spalletti e De Laurentiis, le lacreme molto napulitane versate per “Ciro” Mertens (lo amavo anch’io, né l’ho dimenticato), lo striscione con su scritto “Kim, Merit, Marlboro, tre pacchetti dieci euro” srotolato per protestare contro l’acquisto del coreano (è il mio idolo, anzi uno dei tre).

Non scurdammece ’o passato, anzi facciamo ammenda, o meglio faccia ammenda chi deve. Anche perché, diciamolo subito: è inconsueto poter coltivare, collettivamente e senza distinzioni, un sentimento positivo di appartenenza legato alla città. Certo viene da chiedersi come mai il calcio arrivi dove non riescono né la politica né un senso civico a dir poco sonnolento dalle nostre parti. Ma proprio perché raro, è importante tenerci stretto quel sentimento positivo che attraversa la città, e magari far scaturire da qui qualcosa di altro, di buono, per l’intera città.

Mi sono domandata come mai anch’io “un giorno all’improvviso m’innamorai di te” e penso sia per la squadra messa insieme da Spalletti. È speciale perché esprime un gioco collettivo, tutto il contrario dell’individualismo tipico dei napoletani. Tutti possono segnare, tutti lo fanno, tutti tendono a favorire i compagni, tutti si divertono come se danzassero e sprigionano una fluidità, una leggerezza di gioco che incanta. La squadra è speciale anche perché, come sottolinea il mio amico Armando, è multietnica. Quasi tutti stranieri, certo, però con dei fuoriclasse di provenienze variegatissime, nazionalità insolite: chi georgiano, chi nigeriano, chi kosovaro, chi coreano…

Un vero melting pot capace di evocare le nostre stesse origini meticce, di sollecitare il senso di accoglienza tipicamente napoletano. E pure di allargare la schiera dei tifosi: non più solo napoletani ma anche extracomunitari, decisi a farsi sentire se presenti come spettatori allo stadio o abitanti in località lontanissime da Napoli pronte a imbandierarsi se “la cosa” va in porto.

E ancora. Quando c’era Maradona, vinceva soprattutto lui. Ora invece quando vince il Napoli, vince tutta la squadra. E con lei, tutta la città. Che si scopre – dice bene Roberto Saviano – libertaria e internazionalista.

“VinceNapoli” fu il titolo fatto sul Mattino dell’11 maggio 1987, ai tempi della “cosa” allora attesa da sessantuno anni. In fondo a quella pagina il direttore Nonno decise di mettere un mio pezzo, uno di quelli di cui più sono stata orgogliosa pur non essendo chissà che. Era il resoconto di una giornata passata con Nanni Loy intento a girare in filmato sulla festa spontanea esplosa a tempo debito. Lui regista delle Quattro Giornate di Napoli, che quest’anno celebrano l’80mo, disse che la favola di Maradona andava bene soprattutto per i bambini napoletani perché li invitava a sognare. Era solo preoccupato che si facesse troppo colore, che tutto venisse buttato nel solito folklore facendo dimenticare i veri problemi della città. Ecco un pensiero da tener presente, in caso quella “cosa”…

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Il Mattino