Il pallone italiano nel vicolo cieco specchio del Paese

Il pallone italiano nel vicolo cieco specchio del Paese
Si conclude simbolicamente stasera l’anno sottozero del calcio italiano, a volerla dire con Bonucci, uno che vuole che gli altri si sciacquino la bocca quando parlano di...

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Si conclude simbolicamente stasera l’anno sottozero del calcio italiano, a volerla dire con Bonucci, uno che vuole che gli altri si sciacquino la bocca quando parlano di lui. 


Eppure Bonucci non va tanto per il sottile quando è lui a parlare degli altri. Ché poi il problema non sarebbe neanche tanto retrocedere nella Serie B della Uefa Nations League, una competizione che già a partire dalla prosopopea del nome si capisce quanto sia poco importante, se non proprio inutile. Pensate che, se proprio dovesse andare male, in quella Serie B l’Italia si ritroverebbe in tutt’altro che cattiva compagnia, insieme cioè a una fra la Croazia vicecampione del mondo e l’Inghilterra semifinalista in Russia. Se proprio dovesse andare male, e non è affatto certo, perché anche una Nazionale un po’ così, come quella di Mancini, che possiamo dire sia ancora in rodaggio, non è impossibile che batta la Polonia, e cioè la peggiore fra le squadre europee che in Russia ci è andata. Il problema però è che l’Italia del pallone in questi ultimi anni è già retrocessa: pigliando schiaffoni via via sempre più forti, fino alla mancata qualificazione ai Mondiali dopo sessant’anni.
Il gioco, soprattutto quello fuori dal campo, è poi persino peggiore dei risultati. Perché a sgretolarsi progressivamente non è stata solamente la squadra azzurra, ma l’intero calcio italiano. Soltanto i ricchi non piangono, mettendo a frutto i loro denari o le loro idee, chi li ha denari e idee insieme. Ma Juventus, lo stesso Napoli, Inter, Roma, Milan vivono in un mondo a parte. Incapaci anch’esse di fare sistema. Un po’ perché si sono isolate loro, un po’ perché emarginate da un gruppo dirigente della Federcalcio che da troppi anni ormai si presenta e si ripresenta, perpetuandosi negli stessi errori e nelle stesse promesse. Non siamo nemmeno al Gattopardo, che almeno si preoccupava di cambiare tutto per non cambiare niente.
Qualche speranza in più era stata riposta dagli appassionati nel periodo di commissariamento deciso dal Coni, dopo il crac mondiale e la successiva incapacità di rigenerazione della Federcalcio. Invece a undici mesi dalla doccia svedese e a otto mesi abbondanti dalla decisione di affidare a Roberto Fabbricini l’avvio di una stagione di riforme vere, siamo alla vigilia di una tornata elettorale che vedrà protagonisti gli stessi personaggi sprofondati, nel gennaio scorso, nel ridicolo di elezioni farsa, abortite per incapacità di proclamare un vincitore. Lunedì venturo, il 22 ottobre, un presidente federale sarà invece finalmente eletto: Gabriele Gravina, l’autore negli Anni Ottanta del miracolo calcistico del Castel di Sangro e da allora solido appartenente alla nomenklatura del pallone.
Nel frattempo, la Nazionale ha continuato a fare pena – una sola vittoria in amichevole con l’Arabia Saudita – nonostante la scelta di un ct come Mancini, allenatore quotato e ricco di esperienze internazionali; c’è una squadra, l’Entella, che a fine ottobre non sa ancora se dovrà giocare in Serie C o in Serie B, né sa se e quando verrà presa una decisione in proposito; la Serie B è partita con 19 squadre, a dispetto di format che non sono stati ufficialmente modificati, con una squadra a settimana costretta al riposo, roba da terzomondo calcistico; le escluse non hanno ancora esaurito la strada dei ricorsi, evidenziando incredibili lacune nel funzionamento della giustizia sportiva, tali da indurre il governo a sancirne per decreto la fine dell’autonomia, demandando ogni decisione alla giustizia amministrativa; in estate sono saltate per aria squadre di città importanti o tradizioni consolidate come Bari, Avellino, Vicenza, Cesena: in totale le società fallite sono 39 nelle ultime cinque stagioni, addirittura 153 in quindici anni, a testimonianza di un sistema insostenibile; l’unica vera riforma varata dal commissario, l’ammissione delle seconde squadre ai campionati di Serie C, ha partorito il topolino dell’iscrizione della sola Juventus.
Dietro i lustrini di Cristiano Ronaldo, la voglia di rimettersi in gioco in Italia di Ancelotti, gli investitori stranieri che stanno cercando di risollevare Inter e Milan, c’è un calcio allo sbando, specchio fedele di un Paese confuso e anch’esso a rischio di retrocessione, politica, economica e sociale. Talvolta in passato, il calcio è riuscito nientemeno che a fare da traino a successi e progressi collettivi, ora è solo l’ultima ruota del carro, rispetto pure agli altri sport. Perfino dal governo, per quanto in altre faccende affaccendato, arrivano segnali di insofferenza: la richiesta di Salvini ai club di contribuire alle spese per la sicurezza piuttosto che i pressanti inviti di Giorgetti a un’autentica svolta o l’attribuzione alla Consob di compiti di controllo sui conti dei club.
Il commissariamento è stata un’occasione persa: non sono cambiati né gli uomini né le regole che hanno prodotto questa crisi senza precedenti. Non sono stati riformati i campionati né si è messo mano a uno Statuto federale che emargina la Serie A e non prevede Authority di controllo davvero indipendenti. Gravina verrà eletto perché garante dei soliti noti e non certo sulla base del suo programma: 60 pagine che prevedono tutto e il suo contrario con tempistiche non precisate. Alcuni spunti sono anche interessanti, ma certamente troppo vaghi. C’è una maggiore attenzione alle problematiche del calcio giovanile, sulla scia di quanto cominciato negli ultimi anni, su impulso del direttore generale Uva, che inspiegabilmente verrà messo subito alla porta, intorno alle attività delle varie rappresentative Under e del Centro tecnico di Coverciano, senza però affrontare di petto i problemi veri dell’impiego dei giovani nel calcio professionistico. Quelli che hanno portato Mancini alla provocazione di convocare un giocatore, il centrocampista Zaniolo della Roma, che non aveva ancora neppure esordito in Serie A.

Le partite degli azzurri sono diventate respingenti, perché ci mettono di fronte a una realtà di irrilevanza che fortunatamente i week end di campionato riescono ancora a cancellare. Le soste per la Nazionale sono sempre state un po’ una seccatura, ma almeno si poteva litigare su chi meritasse la convocazione e chi no, in attesa di stringerci a coorte quando in estate agli Europei e ai Mondiali le partite contavano davvero. Adesso, niente, soltanto indifferenza: non ci scuote nemmeno più la paura di una retrocessione che è già maturata nei fatti. Fino a quando?


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Il Mattino