Il «genio» di Isotta ​nella città distratta

Il «genio» di Isotta nella città distratta
Lo chiamavamo “Paolino”. Che strano, visto che era un gigante. A pensarci adesso, doveva trattarsi di quei nomignoli antifrastici in uso soprattutto al Meridione, dove...

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Lo chiamavamo “Paolino”. Che strano, visto che era un gigante. A pensarci adesso, doveva trattarsi di quei nomignoli antifrastici in uso soprattutto al Meridione, dove se sei un po’ tonto – nei piccoli paesi del Sud – ti chiamano, in un misto indistinguibile di ferocia e affetto, “Professore”. Per Paolo Isotta, colosso napoletano della cultura e titano dell’erudizione, il meccanismo di quel diminutivo in uso tra i suoi amici forse era proprio lo stesso, ma al contrario: l’unica diminuzione su cui era possibile operare consisteva nel vezzeggiativo del suo nome, l’unica cosa che si poteva levare a una personalità e a una vita tutta in battere, carica di umanesimo e Bellezza, era l’assertività dell’anagrafe. Perché per tutto quel che riguardava la vita di Paolo Isotta non si poteva che ricorrere a scale di grandezza semplicemente inimmaginabili per la stragrande maggioranza degli intellettuali italiani di oggi.

Apparteneva a quella straordinaria e irripetibile generazione che aveva letto tutto, “l’ultima generazione che sul serio a vent’anni aveva lu tous les livres: uno al giorno, e magari due o tre. Interamente normalmente, anche divertendosi. Facendolo pesare, mai”, per usare le parole dell’Alberto Arbasino di “Fratelli d’Italia” (un libro e uno scrittore, del resto, che Isotta non amava, e anche in questo caso era difficile non imbattersi nei suoi disgusti oltre che nei suoi amori, nelle sue antipatie oltre che nelle sue passioni).

Frequentarlo significava, da un lato, esporre continuamente il fianco a tenere accuse di ignoranza (“Come fai a non aver mai letto questo?”, mi disse una volta, sinceramente stupito, regalandomi i tre sontuosi volumi Einaudi della “Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano” di Gibbon, per un totale di seimila fittissime pagine e una decina di chili di peso).

Dall’altro significava imbattersi nella singolare esperienza di un uomo che ti costringeva a essere più intelligente, o almeno a provarci. Nessuno poteva essere all’altezza del suo sapere, ma tutti potevamo provare a diventare un pezzettino più colti proprio perché Paolo sapeva mazzolarti con la mano sinistra e offrirti il rimedio con la destra: il libro giusto, il film adatto, il disco pertinente. 

È stato amato tanto quanto osteggiato, protetto da tutti quelli a cui voleva bene tanto quanto attaccato dagli altri. I suoi nemici gli davano del reazionario, eppure non ho mai incontrato qualcuno come lui che fosse così attento alle cose che si facevano nel presente. Paolo Isotta non pensava affatto che il mondo di ieri fosse più bello e gentile del mondo di oggi, non insultava il contemporaneo per il semplice gusto di farlo, come di solito si comportano gli intellettuali passatisti e in particolare i letterati. Al contrario: nel presente si muoveva bene e con felicità, seppure con un senso critico elevatissimo che a volte lo spingeva sui binari dell’eccessiva perentorietà. Era un accanito lettore di narrativa che non riservava il recinto della sua sterminata libreria esclusivamente ai suoi amati Virgilio e Lucrezio, ed era un uomo estremamente divertente. Una volta, scrivendo su Rossini, credo che abbia finito col parlare anche di sé stesso: “Rossini, ironico sempre e sarcastico, è stato uno dei più forti battutisti mai vissuti”.

Colpisce perciò molto, alla luce del profilo intellettuale di Paolo Isotta, la totale assenza, al funerale di sabato, di qualunque tipo di riconoscimento o attestazione ufficiale da parte della sua città. Qualsiasi altra amministrazione di una grande realtà urbana che avesse annoverato tra i suoi cittadini una personalità del suo calibro avrebbe fornito una manifestazione tangibile e concreta della sua presenza. 

Se fosse vissuto a Milano, a Firenze, probabilmente pure a Roma – per tacere di altre realtà europee come Parigi, Berlino, Stoccolma… – alle sue esequie avrebbero partecipato il sindaco o l’assessore alla Cultura, e se pure ciò non fosse stato possibile ci sarebbe stata una corona di fiori dell’amministrazione, un picchetto d’onore della polizia municipale, un gonfalone con lo stemma comunale. Forse sarebbe bastato, a pensarci, anche solo un messaggio ufficiale affidato alla lettura di qualcuno dei suoi parenti o amici. Niente di tutto questo è accaduto.

Paolo Isotta è stato lasciato andare nell’oblio della sua città, non si sa se per una scelta ragionata e volontaria o per banale trascuratezza o dimenticanza, e neppure si sa quale delle due opzioni sarebbe da indicare come meno angosciante. La cura della sua memoria, al momento, è nelle mani di un gruppo di amici tenaci che hanno intenzione di promuovere alcune attività, tra le quali l’intitolazione di una via o una piazza cittadina, l’attribuzione di una laurea honoris causa della Federico II (un riconoscimento a cui Isotta teneva molto) e l’esecuzione di un concerto celebrativo presso il Conservatorio di san Pietro a Majella, di cui era professor emeritus. 

Come che sia, anche in morte, come in vita, Paolo Isotta è servito come termometro. Ancora una volta, grazie a lui – anche se questa se la sarebbe volentieri risparmiata con uno dei suoi memorabili scongiuri – è stato un po’ più chiaro il senso di questa città per la sua cultura. 

Ciao, gigante Paolino. 

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Il Mattino