Per il bene del Paese non bastano i contratti

Per il bene del Paese non bastano i contratti
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I nodi alla fine sono venuti al pettine. Il governo gialloverde, nato poco più di un anno fa sotto le stelle candenti del Partito Democratico, ha ultimato la sua corsa. Che Lega e M5S non potessero andare avanti a braccetto per tutta la legislatura, o per una parte abbondante di essa, al di là del reale cemento personale e generazionale tra i due leader Matteo Salvini e Luigi Di Maio, lo si poteva facilmente intuire già durante la stesura dell’ormai famoso fu contratto.

Troppe le differenze politiche, culturali (e anche geografiche) tra i due contraenti. E nemmeno un abile e scafato avvocato, non solo e non tanto del popolo, poteva tenere assieme un partito come la Lega con una forte identità e un programma ben definito, a partire dalla giustizia e dall’economia, con un Movimento dove la maionese della protesta e dell’antisistema teneva assieme una macedonia con dentro di tutto un po’: dalla sinistra massimalista alla destra anarcoide e protestataria. 
Al di là del cahier de complaisance, snocciolato ieri dal premier Conte al Senato, i risultati di questo governo, soprattutto dal punto di vista economico, certo, non ci mancheranno. Le principali misure, quota 100 e reddito di cittadinanza in primis, non hanno ottenuto i risultati annunciati.

Hanno aggiunto invece un ulteriore fardello alla già complicata situazione economica internazionale e nazionale. E, soprattutto se si guarda alla controriformicchia delle pensioni, lasceranno una pesante eredità per le future generazioni. 

Ognuno ha cercato di portare avanti a tutti i costi un suo provvedimento di bandiera, all’insegna dell’un po’ a me e un po’ a te, senza che ci fossero, ma forse non potevano esserci, un progetto e un percorso davvero comuni o almeno una sintesi costruttiva. E così si è andati avanti e indietro più a colpi di social che di provvedimenti anche sulle infrastrutture, sulla giustizia, sui migranti. I Cinque stelle ingoiavano qualche rospo (da un certo punto in avanti molti più degli alleati) e la Lega chiudeva un’occhio su provvedimenti che nel programma elettorale della primavera 2018 non avrebbero mai trovato lontanante spazio.

Poi, dopo le elezioni regionali ed europee, però il numero delle carte del consenso in mano ai due mazzieri si è ribaltato rapidamente a favore di Salvini che ha iniziato con invasioni di campo difficilmente tollerabili dal più paziente degli alleati. Le figurine da scambiare sono finite e le distanze sono venute tutte fuori. Così come le due piazze fuori da Palazzo Madama e il duro atto di accusa nei confronti di Salvini da parte del premier dimissionario, dall’inizio dell’avventura e dall’arringa di ieri ancora di più in quota grillina, hanno certificato senza ombra di dubbio.
Quello che succederà da questo pomeriggio, quando inizieranno le consultazioni, e nei prossimi giorni non è affatto prevedibile. L’unica certezza in questa tattica e pazza crisi d’agosto risiede sul Colle del Quirinale. Il presidente Mattarella ha messo subito in chiaro che non intende perdere altro tempo né tantomeno che accetterà manovre e accordi pasticciati senza numeri ben saldi in Parlamento. 


In questo quadro, a dir poco confuso, risulta molto impervia e piena di incognite la soluzione che da qualche giorno va per la maggiore. Ovvero una nuova alleanza (un nuovo contratto all’italiana non certo alla tedesca? ) tra un partito democratico come sempre diviso e un Movimento Cinquestelle più che altro preoccupato a tirare a campare a partire dal suo leader Di Maio fino alla maggior parte di deputati e senatori. È pur vero che la macedonia grillina potrebbe anche consentire di sostituire la ruota di destra della Lega con quella di scorta di sinistra del Pd. Le differenze tra democratici, per giunta per nulla compatti a differenza del quasi monolite leghista, e pentastellati però sono uguali e contrarie rispetto a quelle con il Carroccio. Forse si potrebbe scavallare qualche mese, mettere momentaneamente al sicuro i conti, evitare l’aumento dell’Iva (ma poi sarebbe davvero una tragedia?), tirare avanti fino alla prossima estate. Poi le distanze verrebbero di nuovo tutte fuori. E i nodi al pettine alla fine della fiera cambierebbero solo colore: dal gialloverde al giallorosso. Il bene dell’Italia, a cui tutti i partiti si sono rifatti a parole ieri pomeriggio in Senato, è un altro e necessita di un programma davvero condiviso e che alla tattica lasci una buona volta il posto alla strategia di medio lungo periodo. 
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Il Mattino