Le partite incrociate ​dei leader sul Quirinale

Le partite incrociate dei leader sul Quirinale
Il Quirinale, certamente. La preoccupazione di dare al Paese una guida autorevole e rispettata, in grado di impersonare al meglio l’unità nazionale. Ma non è...

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Il Quirinale, certamente. La preoccupazione di dare al Paese una guida autorevole e rispettata, in grado di impersonare al meglio l’unità nazionale. Ma non è la sola preoccupazione dei leader politici, in questo momento. Anzi, viene il dubbio che non sia nemmeno la principale, e che all’ombra del Colle si giochino altre, più sostanziose partite. Che ci sia altra ciccia, insomma. 

Prendete il centrodestra, ad esempio. Portare alla presidenza della Repubblica un uomo o una donna che sia espressione del centrodestra è sicuramente un fatto politico (e simbolico) di grande significato. Ma conta pure chi lo pescherà, quel nome. Chi potrà intestarsi la scelta e potrà dire di aver portato il centrodestra unito al voto. Chi, in altre parole, può aspirare a rappresentare l’intera coalizione. Tutti i proclami di consonanza, anzi di concordia - di più: di infrangibile compattezza – che si sentono in queste ore non possono nascondere il fatto che Salvini e Meloni si muovono al preciso scopo di segnare un punto a proprio favore, mettere il cappello sull’operazione e dire al mondo: - il centrodestra? C’est moi -. Del resto, lo stesso Berlusconi, qualora ritirasse definitivamente la propria disponibilità, com’è più che probabile, difficilmente rinuncerebbe a dire la sua, e a cercare di mantenere la centralità conquistata in queste complicate giornate di passione pre-elettorale. Soprattutto se al Quirinale andasse Draghi, e ci fosse da rifare il governo.

A proposito: altra ciccia. Perché l’ipotesi del trasloco del premier al Quirinale non è sorretta solo da alate considerazioni su un capitale di competenza e autorevolezza internazionale che sarebbe un delitto sprecare, ma anche da calcoli un po’ più prosaici sulla nuova compagine governativa, sulla partita dei ministeri, sul peso politico che i partiti potranno avere nel futuro esecutivo: è pensabile che lascino nelle mani dei tecnici due delle più alte cariche dello Stato?

E poi: se, in un eventuale nuovo governo, Salvini chiedesse di entrarvi, assumendo responsabilità importanti (leggi: ministero dell’Interno), che faranno gli altri leader di partito: resteranno a guardare? Peraltro, non sarebbe quello un modo per esasperare la competizione in seno al centrodestra, alla faccia della sbandierata unità? Il tira-e-molla su Draghi, a cadavere politico di Berlusconi ancora caldo, è un tira-e-molla sulle richieste garanzie per un nuovo governo (Salvini) nonché sui possibili caracolli del Paese verso le elezioni (Meloni).

Anche nel centrosinistra il serpente del «cui prodest?» sibila dietro ogni passo. A chi conviene mandare Draghi al Quirinale, come sembra essere nelle intenzioni di Enrico Letta? All’Italia, d’accordo. Ma poi? Se il segretario dem porta a casa un simile risultato, si rafforza di molto all’interno di un partito che di regola ha almeno un candidato al Quirinale per corrente, a volte anche più d’uno. Di sicuro, il Pd è attraversato da uno schieramento pro-Draghi, il cui capofila è appunto il segretario, e da una silenziosa e frastagliata schiera di avversari all’ipotesi Draghi, che allignano tanto nella sinistra del partito, quanto nella corrente riformista. L’esito del voto sul Quirinale avrà ricadute evidenti sugli equilibri interni: se Letta riuscirà a portare il premier sul Colle, avrà le mani molto più libere, in quel che eventualmente resterà della legislatura e (soprattutto) nella composizione delle future liste lettorali. Viceversa, finirà coll’essere di fatto commissariato dai capi delle diverse componenti.

Quanto infine ai Cinque Stelle, lì i giochi sono tutti aperti. I numeri in Parlamento dicono ancora che il Movimento è il primo partito, ma nessuno sembra accorgersene o tenerne conto. Non è una imputazione da mettere in capo al solo Giuseppe Conte, sia chiaro. Resta però che in questi mesi la sua leadership non è decollata, e finire ai margini della scelta del Capo dello Stato non contribuirà certo a rafforzarla. Il paravento della candidatura di Berlusconi consente per il momento a Conte di nascondere il marasma interno, ma sono pochi quelli che, al dunque, scommettono sulla tenuta del gruppo. L’ipotesi di star fuori dall’Aula nel caso il centrodestra insista sul Cavaliere è già un segnale di debolezza: significa che si teme che qualche voto possa scivolare via, verso Arcore. Il che è quanto dire, per un Movimento che in Berlusconi vedeva il diavolo. Ad ogni modo, la debolezza di Conte è la forza di Luigi Di Maio. Il ministro degli Esteri non ha bisogno di proferir parola: gli basta aspettare, e vedere. Se Conte uscirà dalla partita del Quirinale senza troppi danni, Di Maio rimarrà coperto; se invece Conte riporterà qualche ammacco, potrà rigirare il dito nella piaga di una conduzione naufragata alla prima, vera prova.

In breve, siamo tutti col naso all’in su, puntato verso il Colle, in attesa di candidati illustri, non divisivi, sostenuti da vasti schieramenti. Ma le divisioni ci sono già, i leader di partito ce l’hanno tra i piedi e chiunque spediranno al Quirinale devono fare anzitutto attenzione a non inciampare. 

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Il Mattino