Superlega, Pirlo e Klopp lo specchio di due Paesi

Superlega, Pirlo e Klopp lo specchio di due Paesi
Non è solo calcio: è la capacità di portare lo sguardo oltre il proprio interesse particolare. E non è solo sport: è un modo di stare al mondo....

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Non è solo calcio: è la capacità di portare lo sguardo oltre il proprio interesse particolare. E non è solo sport: è un modo di stare al mondo. È sufficiente mettere le une a fianco delle altre le parole degli allenatori: Andrea Pirlo, Juventus, Italia: «Siamo fiduciosi perché abbiamo un presidente all’avanguardia».

Invece Jürgen Klopp, Liverpool, Regno Unito: «Le persone non sono felici e lo posso capire». Stessa cosa se leggiamo le une dopo le altre le parole di Stefano Pioli, Milan, Italia: «Il mio club mi ha chiesto di focalizzarmi sul lavoro» e quelle di Pep Guardiola, che è al Manchester City, Regno Unito: «Sostengo il mio club. Amo far parte di questa società. Ovviamente però ho anche la mia opinione». E l’opinione di Guardiola è che la Superlega Europea non è sport: è un’altra cosa. Un affare, una torta, uno spettacolo, un circo, forse, ma non uno sport.

È già naufragata, e la velocità con cui si è consumata la proposta di Florentino Pérez, Andrea Agnelli e gli altri club inglesi, italiani e spagnoli fa rumore almeno quanto la notizia del «patto di sangue» – parola di Agnelli – che doveva sancirne la nascita. È finita: francesi e tedeschi non hanno aderito, il mondo sportivo si è ribellato, i tifosi si sono fatti sentire, l’opinione pubblica si è indignata, primi ministri e capi di Stato si sono opposti, e i club hanno dovuto fare marcia indietro. Ma le 48-72 ore in cui la Superlega è esistita sono bastate perché Pirlo, da vero yes-man, ne parlasse come di uno sviluppo positivo per il mondo del calcio, in cui avere piena e completa fiducia: non lo dice forse il Presidente? Che altro, allora?

Le stesse ore non sono invece bastate a Pioli per esprimere una sua propria valutazione: parla solo la società. Allineato e coperto: c’è la partita di campionato. Non importa se l’anno prossimo il campionato avrebbe potuto persino non esserci, per il Milan: il club lo paga per la formazione da mettere in campo, e lui questo fa. Quanto infine ad Antonio Conte, neanche lui dice nulla: è «interamente focalizzato sul presente». Come no? Ci sia o no un futuro per il calcio, a lui interessa mettere le mani sullo scudetto. Il resto poi si vede.

Ci possono essere spiegazioni diverse per questo atteggiamento. Dopo tutto, Pirlo è alla sua prima esperienza da allenatore di un grande club – anzi: da allenatore tout court – mentre Pioli, che di esperienza ne ha da vendere, non ha neanche lui lo status del grande allenatore, del profeta del calcio o del guru. Né l’uno né l’altro hanno nel palmares i titoli conquistati da Klopp e Guardiola, celebrati come profeti di una nuova e diversa idea del calcio. Ma se anche così fosse, se anche si trattasse semplicemente della caratura (e del carattere) dei personaggi in questione, non sarebbe anche questa un’impressionante prova di inadeguatezza? 

Sia pure. Ma Antonio Conte? Lui percepisce gli emolumenti di una star, come i colleghi delle squadre inglesi, e quel che riesce a dire è solo che «è nato pronto». Dategli da giocare la sua partita e lui la gioca: altro non sa. Solo se si leggono le dichiarazioni di Klopp e di Guardiola, insomma, si trovano considerazioni che vanno oltre il tornaconto personale, che hanno attenzione a tutte le componenti del sistema. Il funzionamento complessivo e non solo l’interesse proprio o della propria squadra: i bilanci, certo, ma anche i tifosi, le altre squadre, le federazioni e le nazionali, il significato dell’evento sportivo e quel tanto di storia che contribuisce al sapore delle imprese, delle vittorie come delle sconfitte. Guardiola si chiede chi deciderebbe le inclusioni e le esclusioni, e Klopp che senso mai avere giocare per dieci anni consecutivi contro le stesse squadre, si chiamassero pure ogni volta Barcellona e Real Madrid. Pirlo, invece, si fida ciecamente del Presidente, Pioli non ha un’opinione e Conte se ne frega. Terribile metafora della miopia del Paese, incapace di pensare al futuro, di fare rete, di sentire una responsabilità collettiva. Non ci si salva se non tutti insieme: lo ripetiamo dall’inizio della pandemia. Pirlo, Pioli e Conte non l’hanno ancora capito. 

È la maledizione del «particulare», di guicciardiniana memoria, che evidentemente pesa ancora sul nostro Paese e sul mondo del calcio. Così la descriveva il grande Francesco De Sanctis: «Tutti gli ideali scompariscono. Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla scena del mondo che l’individuo. Ciascuno per sé, verso e contro tutti».

Quello che si può aggiungere è che neanche il vincolo sportivo, a quanto pare, riesce a tenere unito questo sbrindellato Paese. E il suo amareggiatissimo popolo di tifosi. 

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Il Mattino