La verità del boss dei Casalesi: «L'Isis voleva i miei kalashnikov»

La verità del boss dei Casalesi: «L'Isis voleva i miei kalashnikov»
«Le armi non le ho volute dare a quelle persone». Quasi con una punta di orgoglio Salvatore Orabona, collaboratore di giustizia, ex dei Casalesi, ha raccontato, prima...

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«Le armi non le ho volute dare a quelle persone». Quasi con una punta di orgoglio Salvatore Orabona, collaboratore di giustizia, ex dei Casalesi, ha raccontato, prima ai pm e poi ai giudici, il rifiuto opposto alla richiesta di vendere armi a Mohamed Kamel Eddine Khemiri, il tunisino quarantatreenne condannato a giugno per terrorismo di matrice islamica. I dettagli di quell'incontro sono descritti nelle motivazioni, depositate in questi giorni, della sentenza pronunciata dai giudici della terza sezione della Corte d'assise del tribunale di Napoli che ha consentito di riportare in carcere Khemiri dopo la condanna a otto anni. Il processo, il tunisino, lo aveva affrontato da libero, dopo essere stato arrestato e poi scarcerato per falsificazione di documenti. Fu proprio in occasione di quel suo primo arresto che il pentito di camorra riconobbe la foto di Khemiri sui giornali locali e sentì di doverne parlare agli inquirenti.

 
È agosto 2016 quando Khemiri viene arrestato nell'ambito di un'indagine su un'associazione accusata di fornire documenti falsi a clandestini. Orabona, un tempo referente per conto dei casalesi nel territorio di Trentola Ducenta e oggi collaboratore di giustizia, lo riconosce dai giornali. Ricorda di averlo conosciuto, di avergli venduto auto e di avergli negato armi forse per un istintivo senso di difesa del proprio territorio, forse per coscienza «avendo compreso - scrivono i giudici - i gravi scopi illeciti per i quali potevano essere utilizzate». «Nel giugno/luglio mi sono incontrato con tunisini o algerini, adesso non ricordo bene - dice Orabona - Siccome io già davo delle auto di Trentola Ducenta a un tale che si chiama Massimo ed è algerino di origine, questi mi fece incontrare dei suoi compaesani o tunisini che mi chiedevano delle auto». Durante l'incontro avviene la proposta di un affare ulteriore. «Dopo aver parlato di auto mi hanno chiesto dei kalashnikov e lì mi sono rifiutato, ho detto no a questa proposta delle armi e ho risposto che potevo dare solo le auto». «Le armi - ribadisce - non le ho volute dare a quelle persone». Si sarebbe trattato di cinque kalashinov. Ci fu un secondo incontro, sempre in un bar. In quell'occasione però si parlò di carte di credito clonate, patenti e documenti falsi e finti permessi di soggiorno, e Khemiri non disse nulla.


È il 30 giugno 2017. L'imam della moschea di San Marcellino riceve una lettera. È di Khemiri che loda Allah e ne invoca la protezione per sé e per il suo lettore, parla della detenzione che lo costringe in carcere a suo dire ingiustamente e gli chiede di aprire un punto di preghiera per donne e una radio, di salutare i suoi genitori e chiedere loro di avere pazienza e conclude con un arrivederci al Nilo del paradiso, cioè quello in cui i musulmani credono ci sia dopo la morte. E aggiungeva una serie di disposizioni che sembravano una sorta di testamento. Il contenuto della lettera, assieme alla circostanza che la missiva sia stata spedita dal carcere in maniera clandestina, senza affrancatura, ha indotto gli inquirenti a ipotizzare che Khemiri fosse pronto a immolarsi, avendo accettato l'idea di morire. Nato a Tunisi, classe 1975, Khemiri arriva in Italia a bordo di un gommone come tanti cittadini extracomunitari. Lavora nei campi, vive di piccoli espedienti, finisce anche per spacciare sostanze stupefacenti. Dopo questi periodo difficile si affida alla fede religiosa, ma va oltre e comincia quella che i giudici definiscono quasi spasmodica ricerca di materiale fondamentalista, aderendo all'ideologia più radicale. Utilizza i social per scambiare testi del corano e commentare fatti di attualità che hanno attinenza con il terrorismo. Per la procura (pm Maurizio De Marco) non si tratta solo di fede religiosa. Khemiri viene accusato di proselitismo e indottrinamento via web e quindi di sostenere il terrorismo di matrice islamica. E si arriva al processo davanti alla Corte d'assise di Napoli (presidente Roberto Vescia) che ha condivido la tesi del pm De Marco e ha condannato Khemiri a 8 anni di reclusione. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino