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Uno dei più feroci tra i fedelissimi del boss Totò Riina. L'autore reo confesso di oltre cento omicidi, torna libero dopo 25 anni di carcere. È Giovanni Brusca, 64 anni, che gli affiliati di Cosa nostra chiamavano «scannacristiani». Fu lui a azionare il telecomando dell'autobomba che uccise Giovanni Falcone. Lui a uccidere il tredicenne Giuseppe Di Matteo figlio del pentito Santino, strangolato e sciolto nell'acido. Lui sempre a azionare l'autobomba che ammazzò il giudice Rocco Chinnici. Un killer sanguinario, «uomo d'onore», braccio esecutivo delle strategie e dei disegni sanguinari dei corleonesi dei boss Riina e Bernardo Provenzano.
LA SCARCERAZIONE
Arrestato il 20 maggio 1996 in una villetta vicino Agrigento, Brusca è diventato 4 anni dopo formalmente collaborare con la giustizia. Ma, a differenza di altri pentiti, ha scontato tutti i 25 anni delle sue condanne. «La mia non è una scelta facile, pesa la storia della mia famiglia e il giudizio che mio padre darà di me» dichiarò ai magistrati. Il padre era Bernardo Brusca, capo della cosca di San Giuseppe Jato, esponente di rilievo nella cupola di Cosa nostra, morto in carcere. «Uomo d'onore» per tradizione di famiglia, sanguinario all'eccesso, nelle sue dichiarazioni Brusca ha riferito anche di rapporti tra Cosa nostra e l'area grigia dei colletti bianchi. Due anni fa, la Cassazione gli negò per la decima volta dal 2002 il beneficio degli arresti domiciliari. Secondo i calcoli di allora, doveva uscire dal carcere di Rebibbia, dove era detenuto, alla fine di quest'anno per uno sconto di 270 giorni. Poi, un'ulteriore ricalcolo e la scarcerazione 45 giorni prima, decisa dalla corte d'appello di Milano, che gli ha imposto 4 anni di controlli e protezione in libertà vigilata.
LE SCELTE
In carcere, Giovanni Brusca ha sposato la compagna Rosaria Cristiano da cui aveva avuto il figlio Davide. Poi confermò le sue dichiarazioni. Disse: «Non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso». Per tradizione familiare, divenne «uomo d'onore» a 19 anni. Il suo padrino fu proprio Riina che lo volle nello spietato gruppo di fuoco dei corleonesi. C'era sempre lui, nei principali omicidi del terribile trentennio dagli anni '70 del secolo scorso. Poi anche capo mandamento di San Giovanni Jato. Divennero famose, e scatenarono polemiche, le immagini del suo arresto, quando fu portato alla Questura di Palermo e, tra le urla esultanti degli agenti, veniva mostrato come un trofeo. A indicare il suo nascondiglio erano stati i due pentiti Giuseppe Monticciolo e Vincenzo Chiodo, ex suoi fedelissimi. Quando fu arrestato, gli agenti dell'allora questore palermitano Arnaldo La Barbera lo trovarono con il fratello mentre guardava il film «Giovanni Falcone» di Giuseppe Ferrara. Fu ammanettato dall'ispettore Luciano Traina, fratello di Claudio agente della scorta del giudice Paolo Borsellino, in via D'Amelio. La collaborazione con la Procura di Palermo fu avviata da Brusca un mese dopo l'arresto, ma era un depistaggio, per colpire il suo nemico Baldassarre Di Maggio, pentito ex capo cosca. Poi, nel 2000 gli fu riconosciuto lo stato formale di collaboratore di giustizia dopo essere rimasto a lungo solo un «dichiarante». Torna libero, sotto protezione andrà a vivere con la moglie. Resta un mistero il suo patrimonio, che molti inquirenti ritengono sia ancora sostanzioso.
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Il Mattino