Ucraina, a piedi nel campo minato tra le trincee di Donetsk: «Qui fermeremo i russi»

Ucraina, a piedi nel campo minato tra le trincee di Donetsk: «Qui fermeremo i russi»
Periferia nord di Donetsk, siamo all'interno dell'ultima trincea ucraina. Solo 150 metri più avanti la prima postazione dell'esercito russo. Sul fronte del...

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Periferia nord di Donetsk, siamo all'interno dell'ultima trincea ucraina. Solo 150 metri più avanti la prima postazione dell'esercito russo. Sul fronte del Donbass, nell'estremo est dell'Ucraina, la guerra va avanti senza tregua dal 2014, da quando i separatisti filo russi hanno trasformato questa città nella loro roccaforte. Oggi questa è la frontline più calda della guerra. È qui che Putin ha deciso di concentrare tutti gli sforzi militari dell'offensiva. 

Il capitano Leonida è un infermiere e insieme alla sua squadra distribuisce medicinali ai vari battaglioni impegnati nel conflitto, sarà lui a guidarci verso il fronte. Dopo aver superato i resti di un missile grad inesploso conficcato nell'asfalto il furgoncino con la grande croce rossa stampata si ferma bruscamente: «Da qui dobbiamo proseguire a piedi, troppo pericoloso, la strada è minata». 

Camminiamo fino all'ultimo checkpoint, il soldato di guardia ci ferma: «Oltre questa postazione ci sono i russi», ci chiede una sigaretta e iniziamo a parlare. «Da qui non è possibile vedere la trincea del nemico - siamo su una piccola collina con vista sulla città -, però vi posso far vedere la nostra». Ci intrufoliamo nel bunker antiaereo dove vivono i soldati: alcuni letti e una stufa per l'inverno che ormai non serve più. «È stata una dura notte di combattimento, bombardamenti, colpi di mortaio, carri armati che sparavano da entrambi i fronti. Li fermeremo». Il militare ne approfitta per sedersi un attimo sulla branda: «In questi giorni sta aumentando l'intensità degli attacchi, i russi stanno rafforzando la linea». Neanche un minuto e scatta di nuovo in piedi: «Si è fatto tardi, devo tornare alla postazione».

Nella campagna del Donbass le colonne di fumo si alternano alle poche case abbandonate. I colpi di artiglieria, in entrata e in uscita, sono costanti. Ci fermiamo all'ingresso di una base militare per chiedere un'autorizzazione e ci viene incontro Antonio, un giovane militare che ci saluta in italiano: «Ciao ragazzi, forza Italia». È venuto a portarci una bottiglia d'acqua e a raccontarci il suo sogno: «Finita la guerra voglio andare a Torino a vedere una partita della Juventus». Davanti alla base militare c'è un continuo viavai di mezzi, esce uno scuola bus giallo, chissà cosa trasporta. Antonio ci avverte che non è sicuro restare all'ingresso della base, conviene spostarsi nell'edificio adiacente: «È meglio se aspettate nel rifugio, potrebbero colpire in ogni momento». Un attimo dopo sentiamo non lontano venti colpi di grad esplodere.

Arriva l'autorizzazione, possiamo spostarci verso Avdiivka, un piccolo villaggio nell'hinterland di Donetsk ripetutamente bombardato dal 2014 ad oggi. Entrando in paese un cartello avverte Avdiivka è territorio ucraino. Incontriamo Alexander all'indicazione 6 chilometri dal centro di Donetsk che ci spiega: «Il campo qui davanti è pieno di mine, nel campo dopo ci sono i russi, meno di 500 metri». Le poche persone rimaste ad abitare questo inferno vivono da un mese sotto terra. «Il 14 febbraio hanno attaccato il depuratore qui vicino - spiega Alexander -, siamo senz'acqua da quasi due mesi». 

Una colonna ordinata di persone fa ritorno al rifugio con due taniche d'acqua a testa: devono andare ogni giorno a piedi fino alla fonte in paese per rifornirsi. Decidiamo di seguire una coppia in uno dei rifugi per vedere come vivono. Gli scantinati di un palazzo in stile sovietico sono stati riadattati per far sopravvivere queste persone, sono le catacombe di Donetsk. Il soffitto è alto un metro e venti, bisogna accovacciarsi per entrare. Le stanze sono divise con delle coperte che fanno da porte e mantengono il calore, in una di queste vivono cinque persone, tra loro anche un bambino. 

Lidia riconosce subito il nostro accento: «Siete italiani vero?» Il suo sguardo si illumina: «Ho un figlio che vive a Napoli dal 2001, non riesco a sentirlo da due mesi». Portiamo Lidia per un attimo fuori dal rifugio e riusciamo a trovare una connessione con i nostri smartphone per contattare il figlio. Mentre il telefono squilla l'emozione è tanta. «Pronto Slava, mi senti? Sono mamma». Lidia inizia a raccontare a suo figlio che da oltre un mese vivono sottoterra, che papà Sergej è ricoverato in ospedale con un problema al cuore ma sta bene. Pochi minuti non bastano a raccontare tutto. Slava non può fare niente: il papà non reggerebbe il viaggio verso ovest, la madre non abbandonerebbe mai suo marito malato e le ambulanze per un trasporto d'emergenza da queste parti non esistono più. Bloccati in questo inferno senza una via d'uscita.

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Il Mattino