Zingaretti si dimette, ora rischia il patto Pd-M5S: Bonaccini pronto alla scalata

Zingaretti si dimette, ora rischia il patto Pd-M5S: Bonaccini pronto alla scalata
Come fece Veltroni quando si dimise da segretario del Pd. Così fa anche Zingaretti: «Basta, mi avete stancato, me ne vado». E ai suoi assicura: «Non...

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Come fece Veltroni quando si dimise da segretario del Pd. Così fa anche Zingaretti: «Basta, mi avete stancato, me ne vado». E ai suoi assicura: «Non c’è possibilità che ci ripensi. È finita qui. Ho rianimato un partito che stava sparendo, ho vinto Europee e Regionali, ho fatto due governi e in cambio ricevo solo attacchi e insulti». Dice, il capo anzi ex capo del Nazareno, che «questa è una decisione irrevocabile» e nessun appello - già si stanno raccogliendo le firme per il «Nicola resta!» e già Franceschini ha twittato «tutti insieme per Zingaretti» ma molti nel Pd sospettano che si tratti di un «bacio di Giuda» - lo farà recedere dalla scelta. Ma chissà. La decisione è stata presa senza avvertire nessuno e piombata sul partito come un tornado o come una liberazione. Perché la ferocia della guerra interna stava assumendo, già da un po’, modalità mors tue vita mea e Zingaretti si sentiva dentro un bunker bombardato da tutte le parti. Anche quelle presunte amiche. 

Magari l’assemblea nazionale del 13 e 14 marzo riuscirà a stoppare l’addio. Ma lui tiene il punto: «Farò soltanto il presidente del Lazio. E non ci penso proprio a candidarmi sindaco di Roma». Punto. Quando si dimise Renzi, dopo il tracollo nel referendum costituzionale, andò così. L’assemblea nazionale come reggente scelse, da regolamento, il presidente del Pd, che era Orfini. Poi vennero indette le primarie per la segreteria. Stavolta, il problema è che la presidente del Pd, Valentina Cuppi, è da tutti considerata inadeguata, messa lì soltanto perché donna, come dicono soprattutto le sue compagne donne, una di quelle riserve emiliane (non è il caso di Bonaccini, come vedremo) su cui si può contare ma che non contano. Quindi? 

Improbabile che toccherà alla Cuppi diventare reggente. Il tam tam di queste ore dice che toccherà al vicesegretario Orlando caricarsi la baracca e che a lui non dispiaccia affatto (non ne poteva più di fare il parafulmine per Zingaretti). E guarda caso, così ragionano i parenti serpenti, quando Orlando è diventato ministro del Lavoro con Draghi non ha voluto lasciare il ruolo di vicesegretario nonostante il pressing che lo invitava a farlo in favore dell’ascesa di una donna. Ma per passare da vicesegretario a reggente, Orlando deve essere votato dall’assemblea.  

Quel che è certo è che senza Zingaretti e con tutte le correnti in subbuglio per l’alleanza dem-M5S a cui il segretario tiene sommamente - e per blindarsi la sta facendo anche in Regione Lazio - cambierà su questo la linea del partito. «Non possiamo andare a braccetto con un movimento - dicono i più - che con Conte leader è destinato a prosciugarci elettoralmente ed è bastato il solo annuncio della sua leadership nei grillini per toglierci il 6 per cento dei voti nei sondaggi de sbatterci giù al minimo storico del 14 per cento». Guarda caso, infatti, i più disperati dall’addio di Nicola sembrano essere i grillini. Mentre nel suo partito, al di là delle preghiere: «Nicola, ripensaci!», se ne stanno facendo velocemente una ragione. E si aspetta l’avvento di Bonaccini. Il quale scalda i motori. Non sono soltanto gli ex renziani di Base riformista a volerlo. Il presidente emiliano - «Dicono che sono amico di Salvini per il vaccino russo e per la riapertura dei ristoranti? Ma io sono quello che un anno fa, quando Salvini pareva invincibile, lo ha sconfitto in Emilia in una partita che era nazionale!» - da un anno tesse rapporti con tutti dentro il partito per prepararsi a prenderne il comando. Chi prima lo snobbava, ora dice: «Ci si conosce da una vita con Stefano. Farà bene». Lui è pronto a presentarsi alle primarie, che saranno al più presto Covid permettendo.   

Il sostegno alla sua ascesa sono i pezzi forti del Pd sui territori, quella rete di sindaci che va da Gori e Nardella (duo cruciale) a Decaro presidente dell’Anci e c’è chi scommette sull’appoggio del governatore campano De Luca, per non dire di tutto il mondo ex renziano e renzista a cominciare da Renzi. Basta questo per capire che il Pd post Zingaretti - un segretario che non controllava i territori - sarà un Pd tutto diverso. Con un profilo riformista più accentuato, aperto all’area liberal e del centro innovatore, tutto teso al recupero della vocazione maggioritaria e alla distanza rispetto ai grillini. Ma il profilo nordista di Bonaccini, se toccherà a lui guidare il partito nazionale, andrà mitigato e assai.  

Gli zingarettiani in queste ore ricordano un motto famoso di Togliatti sul Pci, ritenendolo adatto anche al Pd: «Mai un Papa romano e mai un Segretario emiliano». E c’è chi aggiunge: «Bonaccini sarebbe il secondo segretario emiliano. L’altro è stato Bersani, e s’è visto come è andata...». Ma c’è poco da scherzare in casa dem. Sta bruciando tutto. 

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Il Mattino