«Don Carlo», il kolossal che apre la stagione del San Carlo è un apologo sul potere

La prima nel segno di Verdi

«Don Carlo», il kolossal che apre la stagione del San Carlo è un apologo sul potere
Da dove arriva il «Don Carlo» di Verdi che, simile a un monolite misterioso e sfaccettato, scenderà nel teatro San Carlo stasera ad aprire la stagione...

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Da dove arriva il «Don Carlo» di Verdi che, simile a un monolite misterioso e sfaccettato, scenderà nel teatro San Carlo stasera ad aprire la stagione 2022/2023? Questo monolite venuto da un pianeta di emozioni complesse e di eruzioni passionali, ma strozzate e sfregiate dalle ombre del potere assoluto e della religione politica, arriva dalla Romantik tedesca che invase e incrinò la classicità del Don Carlos di Schiller.

In piena atmosfera romantica, Schiller immaginò una storia proiettata in una quasi immaginaria corte spagnola dove Don Carlo, un figlio sensibile e innamorato della fidanzata e promessa Elisabetta, se la vede sottrarre dal padre e sovrano Filippo II, un padre politico e potente che ha anche un'amante, ma che condanna il giovane figlio a vederlo tutto il giorno sposato alla giovane Elisabetta, mostrando a tutti di possedere la fidanzata del figlio e il potere. In questa situazione entrano poi un altro giovane, Rodrigo, che amico del ribelle ma più fragile Don Carlo, si scontra con il grande Inquisitore che vuole il mondo inchiodato al potere congiunto di Stato e Chiesa.

E il dramma, che è quello dell'assurdità di un figlio che deve chiamare «madre» quella che doveva essere la sua compagna, e padre colui che va a letto con la sua ex ragazza, sfocia in una ribellione contro il padre che incarna il potere: una ribellione che prima porta alla morte Rodrigo, fraterno amico di Carlo, e poi spinge il Padre a condannare a morte il Figlio...

Ma questa vicenda, come il lettore l'ha seguita fin qui e che lo spettatore seguirà al San Carlo, è in realtà già quella del «Don Carlo» di Verdi e non più del Don Carlos di Schiller. Verdì entrò nel mondo di Schiller alla sua maniera: da grande esperto di teatro e da grande musicista, costringendo i suoi librettisti a seguirlo nell'impresa di trasformare un'opera solo di teatro senza musica in un'opera di musica che diventa teatro: un'opera di Verdi, e non più di Schiller.
Ciò che c'è già in Schiller viene approfondito e scavato da Verdi, uno scavo che durò per quasi vent'anni, dalla prima versione in francese, il «Don Carlos», a quella in italiano, il «Don Carlo», attraverso tagli e stesure e musica tolta e aggiunta, e trasformando il sé stesso di «Traviata» e «Rigoletto» in un autore sottile che niente aveva da invidiare alla complessità musicale di un Wagner. E i temi? Se Schiller da illuminista tratteggiava la Chiesa subdola dell'Inquisizione spagnola, Verdi va oltre e disegna la Chiesa come anticipazione dello stato totalitario: del dominio teopolitico. Se Schiller indicava già l'ambiguità di un figlio che ama una matrigna con sussulti incestuosi, Verdi aggiunge la deformazione che il potere porta nell'eros e nell'amore, e la sconfitta della giovinezza ribelle nei confronti della vecchiezza eterna del potere. E se Schiller ha a disposizione solo la musica dei versi, Verdi inventa per il suo «Don Carlo» una musica che sa passare dalla festa alla malinconia, dall'ebbrezza amorosa al dolore profondo, dall'umiliazione dei sudditi alla plumbea coltre oppressiva del potere: anzi, Verdi non si limita a passare da un tono e da un'atmosfera all'altra, ma riesce a far confluire, anche in una stessa scena, toni diversi, a mescolare colori pastosi a colori taglienti, a intridere la dolcezza di tristezza e la malinconia di felicità: in una delle opere a cui teneva di più ma che è una delle sue opere meno rappresentate.

Lo spettatore di stasera al San Carlo avrà la bonne chance di vedere e ascoltare il «Don Carlo» in cinque atti, in una versione che ha più coerenza narrativa delle altre che Verdi cucì e scucì per motivi di adattamento ai gusti del pubblico dell'epoca, sacrificando alcuni passaggi che non permettono, nelle versioni più scorciate, di capire l'essenziale del «Don Carlo». Un essenziale già tutto Moderno, che sta nell'idea e nella pratica che l'amore non vince tutto ma può essere distorto dalla dura e tetra realtà, e dall'idea che la politica non è solo una vernice della nostra vita ma può entrare in essa ammalando la vita individuale con le leggi.

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Il Mattino