La sfida era doppia: da un lato c’era un figlio, Francesco Merola, calato nei panni, e nel mantello, del ruolo che fu cavallo di battaglia del padre Mario; dall’alto...
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Nino D’Angelo, ideatore di uno spettacolo-omaggio al re della sceneggiata nel decimo anniversario della morte, non immagina possibili revival del genere, nè cerca riletture postmoderniste, anzi, affida a Bruno Garofalo regia e scene volutamente naturalistiche, come i costumi di Grazia Nicotra, come gli arrangiamenti da orchestrina in buca di Enzo Campagnoli, come la recitazione di una compagnia che alterna la vis comica dell’esperta Gina Perna e del figlio d’arte Massimo Salvetti alla freschezza di Gianni Fiorellino, l’esperienza di Lina Santoro alla grazia di Rossella Amato e Tiziana De Giacomo. «Zappatore», tratto dal capolavoro melò di Bovio e Albano, parte dall’allestimento della compagnia di Enzo Vitale nel ‘53 e non attualizza niente, anzi cristallizza l’inattualità, non della storia, in fondo modernissima nei rapporti di classe tristemente messi in campo, ma dell’idea stessa di spettacolo sottesa a una simile rappresentazione. Che pure scorre spontanea, con la sorpresa di una costruzione degli interventi canori tutti meroliani doc, da «Freva ‘e gelusia» a «Ciento catene», passando per gli sketch comici che riscrivono «Spusalizio ‘e marenare» e «’A cassa integrazione».
Quello che dà il senso a tutto, e che fa vincere le due sfide, è la prova di Francesco Merola, che aveva giurato di non indossare mai il mantello dello zappatore e che invece lo porta con naturalezza, senza esagerare, identico al padre nella fonetica carnale, in certe «o» e «a» cantate con inconfondibile vutata, nel tono se non nella corporeità che serve per impartire l’ordine tanto atteso: «Addenocchiate e vasame sti’mmane!». ‘O zappatore nun s’’a scorda ‘a mamma, si sa: Francesco «Zappatore» è stato svezzato a latte e sceneggiata e non dimentica, come potrebbe, nemmeno il papà. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino