Gigi Proietti racconta Vittorio Gassman: «Guardavamo il mondo dalla ruota del luna park»

Cominciò con un complimento a mezzo stampa. Vittorio Gassman, che era già famoso, in un articolo di giornale ebbe belle parole per un giovane attore molto...

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Cominciò con un complimento a mezzo stampa. Vittorio Gassman, che era già famoso, in un articolo di giornale ebbe belle parole per un giovane attore molto promettente. Gigi Proietti. «Ero un ragazzo, Vittorio fu molto generoso, segnalò me e Carmelo Bene. Non capita spesso che un grande artista trovi il tempo per incoraggiare un esordiente di belle speranze. Lui aveva questa attenzione. E io so quanto è importante. Lo so tanto bene che negli anni ho aperto una scuola di recitazione». Domani saranno vent'anni dalla scomparsa di Gassman, piegato a 78 anni dalle conseguenze di una terribile depressione. Della sua leggendaria carriera, della sua personalità da Mattatore che nascondeva un grumo invincibile di fragilità, della sua vita rocambolesca sul set e nel privato, molto si sa. Ma nei ricordi di Gigi Proietti è la loro amicizia ad occupare il posto principale. Perché quella conoscenza nata sulle colonne di un giornale diventò nel tempo un legame profondo. Ed è così che oggi gli piace parlare di Vittorio Gassman: come di un amico vero.

 
Com'erano i vostri incontri?
«A volte mi invitava a casa sua, a Roma, nella villa aveva un teatrino e allestiva spettacoli molto divertenti. In quell'occasione scoprii il suo talento grottesco anche sulle tavole di un palcoscenico, non solo al cinema. Gli piaceva stare con gli altri, sembrava quasi ne avesse bisogno. Io ero molto giovane, quelle serate mi incuriosivano. Col tempo siamo diventati amici, le nostre famiglie si frequentavano. Quando voleva Vittorio faceva molto ridere, era spiritosissimo».

Poi cominciò la battaglia con la depressione.
«La fase più dolorosa è stata l'ultima. Tutti cercavamo di sostenerlo, ma è una brutta bestia, la depressione. Ti fa sentire impotente».

Ha qualche ricordo particolare di quel periodo?
«Ci vedevamo comunque, andavamo a mangiare insieme, con le nostre mogli... Lui si rasserenava a stare in compagnia, aveva un sorriso pallido di cortesia... Ma basta. Vittorio è stato un uomo di cultura infinita, aveva una personalità gigantesca, era autoironico, aggressivo, giocoso, un epigrammista formidabile. E mi piace ricordarlo così».

Avete recitato spesso insieme?
«In teatro mai, per colpa mia. Non accettai di fare Iago nel suo Otello. È la cosa che rimpiango di più».

Perché rifiutò il ruolo?
«Così, forse ne avevo avuto inconsciamente paura... Stavo su un altro tipo di spettacolo, facevo A me gli occhi, please».

Invece al cinema?
«Me lo sono goduto durante le riprese americane del film Un matrimonio di Robert Altman. Vittorio era il protagonista, io avevo una piccola parte, ma rimasi un mese sul set, in una villa sulle rive del lago Michigan. Un posto terribile. Il lago erodeva il terreno, non c'era un dosso, una collinetta... Vittorio diceva: Ho bisogno di un'altura. A volte andavamo a chiacchierare sulla ruota panoramica del luna park, per stare un po' in alto... Era un uomo di simpatica follia. L'ho molto amato».

E nel film «Il premio», di suo figlio Alessandro, per certi versi lo ha anche interpretato.
«Quel film era l'omaggio di un figlio a un padre grande e complicato, capace di improvvise malinconie e di imprevedibili riscatti. Un'operazione molto delicata. Mi sono fidato di Alessandro, che ho visto crescere e certo ne sapeva più di me. Mi sono affidato e lui ha guidato il set con mano sicura».

Il segreto di un'amicizia così lunga, qual è?
«Non ci sono segreti, abbiamo attraversato la vita. A Vittorio piaceva giocare a fare il ragazzone. Ha sempre amato il gioco, non lo scherzo che di solito viene fatto a scapito di qualcuno. Il gioco con le sue regole. Una volta voleva a tutti i costi mettere su una specie di comunità: Compriamo un grande terreno, ognuno con la propria villetta...».

E ci riuscì?
«Facemmo tante gite piacevoli per cercare il terreno, tutte a vuoto. Ma lui era un sognatore, ci credeva. Amava i giochi. In fondo, che cos'è il teatro, se non la possibilità di continuare a giocare come da ragazzini, senza vergogna? Il gioco della rappresentazione resta il più bello dei giochi. E Vittorio anche in questo era un fuoriclasse. Capace di trovate memorabili. Per il suo compleanno, una volta, organizzò una festa pazzesca in un bosco vicino a Roma, raggiungibile solo a dorso di mulo... Credo fosse durante le riprese di Brancaleone. In Brancaleone alle crociate, c'ero anch'io, avevo tre ruoli: la Morte, Pattume e lo Stilita che predicava stando appollaiato in cima a una colonna... Un'avventura. Sfido chiunque a sobbarcarsi la fatica di interpretare Brancaleone. Vittorio era perfetto, quel personaggio donchisciottesco gli si attagliava in tutto e per tutto. Straordinario».

Quali sono i suoi ruoli più belli, per lei?
«Non c'è che l'imbarazzo della scelta, cambiava registro con una sapienza incantevole. Penso al Sorpasso e ai grandi personaggi che ha reso immortali, ma anche a prove come quella che diede nel film di Risi, In nome del popolo italiano: strepitoso. In Tosca con la regia di Magni ci ritrovammo fianco a fianco, io ero Cavaradossi, lui Scarpia, e anche lì fu uno Scarpia meraviglioso, molto ironico, davvero notevole».

Nella vostra amicizia c'è posto anche per qualche rimpianto?

«Ripeto, mi dispiace non aver fatto Iago nel suo Otello, ma nell'amicizia non ho rimpianti. Tra noi c'era un bell'affetto, non proprio l'intimità che nasce tra coetanei, ma tanta simpatia. Suo figlio Jacopo studiava con le mie figlie, ci vedevamo quando si poteva... Insomma, eravamo de' casa».  Leggi l'articolo completo su
Il Mattino