Scudetto Napoli, Paolo Sorrentino nell'azzurro della grande bellezza

Il regista premio Oscar pronto a fare festa con tutta la città: «È uno dei giorni più emozionanti della mia vita»

Paolo Sorrentino
Le «prove tecniche di esultanza» di Paolo Sorrentino sono partite da tempo. Su Instagram, ufficiali e condivise con tutti i cuori azzurri. A San Valentino, il giorno...

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Le «prove tecniche di esultanza» di Paolo Sorrentino sono partite da tempo. Su Instagram, ufficiali e condivise con tutti i cuori azzurri. A San Valentino, il giorno degli innamorati (e quando, sennò?), con il Napoli sempre più in fuga, ha postato il video di Lorella Cuccarini a Sanremo cambiando le parole della canzone: «Vola con quanto fiato in gola, l'Azzurro t'innamora, il Napoli consola, la notte vola». A metà marzo ha pubblicato una prima foto benaugurante di Silvio Orlando/cardinale Voiello, il prelato supertifoso di «The Young Pope» con le cover di Hamsik, Insigne e Higuain sui cellulari e il coro della curva B, «Un giorno all'improvviso», come suoneria. Poi, dopo il gol-partita di Raspadori contro la Juve, ha tirato fuori un altro fotogramma che all'epoca aveva tagliato «per scaramanzia», con Voiello a bagno in una fontana del Vaticano, braccia al cielo e occhi chiusi nell'estasi dello scudetto finalmente vinto. «Prove tecniche di esultanza», appunto. 

Ma ora che non è più così necessario affidarsi a riti apotropaici e ci si può abbandonare al piacere dello scudetto sospeso, domenica scorsa rieccolo allo stadio, pronto a fare festa con tutta la città: «È uno dei giorni più emozionanti della mia vita». A detta di De Laurentiis, è pronto a tornarci anche domenica prossima per la supersfida con la Fiorentina e, se tutto andrà come deve, a scendere con lui in campo. Magari qualche momento di questa ubriacatura confusa e felice finirà anche nel nuovo film sul mito della sirena Partenope che presto comincerà a girare tra il centro storico e Capri, l'Isola Azzurra per antonomasia. E chissà che non abbia ragione il suo vecchio amico e maestro Antonio Capuano, quando si dice pronto a scommettere che tra i tanti motivi che lo hanno spinto a scegliere questo periodo per le riprese c'è senz'altro la voglia di trovarsi a Napoli in uno dei momenti più entusiasmanti della sua storia calcistica. 

Perché per Sorrentino, lo sappiamo dai suoi film, il calcio è molto più di un gioco meraviglioso. È magia, divertimento, nostalgia. È emozione allo stato puro, malinconia del disincanto. Illusione. Un «trucco» dell'anima che sfiora la potenza della liturgia: «Credo nel potere semidivino di Maradona». Per lui che ha fatto delle fugaci fiammate del desiderio un cardine della narrazione, come per Pasolini il calcio è l'ultima «rappresentazione sacra» del nostro tempo. Ed è impregnato di mistica calcistica, fin dal titolo, il suo primo film, «L'uomo in più», metafora sulla perdita dell'innocenza e il doloroso passaggio della linea d'ombra di ogni esistenza umana. Un vero e proprio manifesto della poetica sorrentiniana, una storia struggente di vite parallele che si apre, non a caso, nello spogliatoio riservato agli ospiti dello stadio San Paolo, nell'intervallo di una partita di campionato tra il Napoli e un'imprecisata squadra con la maglia rossa. Un allenatore sanguigno che tutti chiamano il Molosso, modellato con chiara citazione sul «Petisso» Pesaola, strapazza i giocatori per come stanno conducendo la partita. Solo uno, il capitano interpretato da Andrea Renzi, si permette di replicare. Si chiama Antonio Pisapia, è a fine carriera e pensa di diventare allenatore. «Il calcio è un gioco, ma tu sei un uomo fondamentalmente triste» gli dice invece il presidente cinico e maneggione buttandolo fuori. Isolato, depresso, Pisapia si ucciderà, come si uccise nella realtà l'ex capitano della Roma Agostino Di Bartolomei che Sorrentino prese a tragico modello. «Volevo raccontare quella fase in cui la vita di un uomo smette di essere facile» disse del personaggio che nel film affiancava al suo doppio speculare, un cantante alla Califano con lo stesso nome, Tony Pisapia, e il volto di Toni Servillo, l'attore feticcio amato come un fratello maggiore. 

Molti anni dopo, nella doppia serie sul Giovane Papa, ha cucito la sua passione azzurra addosso allo straordinario cardinale Angelo Voiello di Silvio Orlando. È lui, il machiavellico tessitore di trame vaticane, il portabandiera di una passione irredimibile, reo confesso di disdicevoli intemperanze («è vero, ho ingiuriato il proprietario dell'osteria Er core de Roma, asseriva che Maradona si droga ancora. Gli ho detto: Faccia di cazzo, non ti permettere mai più di pronunciare il nome di Dio invano»), officiante supremo di un rito agonistico assai vicino all'idea di miracolo che al Papa di Jude Law appena uscito dalla rianimazione osa chiedere in confidenza: «Santità, nel periodo in cui era in coma ha saputo qualcosa al riguardo del Napoli, se vinceva lo scudetto, la Champions, l'Europa League?».

E poi. E poi c'è Maradona. Icona, mito, metafora del sublime e della grandiosa fragilità della vita stessa. Molto più di un campione amatissimo. Un simbolo di resistenza umana, un totem contro la disperazione. Diego Armando Maradona è la «sliding doors» di Sorrentino. È l'uomo che gli ha salvato, letteralmente, la vita e lo abbiamo visto in «È stata la mano di Dio», il film «più intimo e personale» del regista. Aveva sedici anni, Paolo, quando i genitori morirono per le esalazioni di una stufa difettosa nella casa delle vacanze a Roccaraso. Lui, per la prima volta, non li aveva accompagnati. Aveva avuto il permesso di seguire il Napoli in trasferta a Empoli. In una notte perse tutto: l'adolescenza, la spensieratezza, l'attesa del futuro. Il colore dei sogni. Ecco perché, sul palco dell'Oscar vinto per «La grande bellezza», con Fellini, Scorsese, i Talking Heads, tra le sue fonti d'ispirazione citò anche Maradona. Ecco perché un sosia del Pibe, imbolsito, invecchiato e sofferente ma ancora avido di vita, galleggia con Harvey Keitel e Michael Caine nella piscina di «Youth» e palleggia solitario y final con una pallina da tennis, simulacro dell'inesorabilità del tempo che passa, simbolo inscalfibile di un passato felice. Una magnifica, fanciullesca ossessione: «Poco prima dei Mondiali dell'86 lo spiai per una notte mentre si allenava di nascosto su un campo da tennis e tirava ininterrottamente palloni in porta mettendoli sempre all'incrocio dei pali, nello stesso punto. Più spettacolo di questo, non mi viene in mente niente». Ecco perché il pupazzo di Maradona che saluta il pupazzo di Papa Francesco con un cordiale «ciao bello!» compare nella prima scena del delizioso corto collettivo «Homemade», girato tra le mura di casa durante la pandemia. S'intitola, quel corto, «Viaggio al termine della notte», come il romanzo di Céline che Sorrentino considera inarrivabile nel racconto delle contraddizioni dell'animo umano.

Da ragazzo il regista giocava a pallone e correva allo sfinimento, come il suo idolo Bagni: «Poi ho smesso, ho cominciato a fumare». Una volta a Napoli, a un semaforo, vide El Pibe al volante di un'auto e gli sembrò che il tempo si fermasse. Ma da quando il Napoli è solo in testa alla classifica, anche il suo tempo di tifoso ha cominciato a correre più veloce. «Diego diceva che il calcio è un gioco che si basa sulle finte: fingi di andare a sinistra e poi vai a destra. Vale anche per il cinema». La capolista se ne va. Sorrentino festeggia allo stadio che oggi si chiama Maradona. Comincia un altro film.  

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Il Mattino