Roberto Colella è sceso dalla nave-gommone di capitan Capitone/Sepe ed è tornato a fare il pirata del nu neapolitan power con la sua band/ciurma, La Maschera,...
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
OFFERTA SPECIALE
Tutto il sito - Mese
6,99€ 1 € al mese x 12 mesi
Poi solo 4,99€ invece di 6,99€/mese
oppure
1€ al mese per 3 mesi
Tutto il sito - Anno
79,99€ 9,99 € per 1 anno
Poi solo 49,99€ invece di 79,99€/anno
«ParcoSofia» è un luogo non luogo, anche se la radice latina della prima parola fusa con quella greca della seconda potrebbero tradursi con un perbenistico «Moderarsi in sapienza»: «È il parco in cui sono cresciuto, è il nome delle case popolari evocate nel secondo pezzo, palazzine in cui tutti siamo cresciuti sognando un altro mondo possibile, è anche l’indirizzo fantastico dell’incontro tra Napoli e Africa che è al centro di questo disco». Se la caratteristica principale del sound rimane nella seconda linea di canto affidata alla tromba di Vincenzo Capasso, il disco è caratterizzato dall’influsso di Ba e della musica senegalese che, poi, a sua volta, nasce dall’incontro della cultura wolof con quella cubana: «Non eravamo sicuri che Laye fosse famoso come diceva, l’abbiamo conosciuto a Napoli, dove ha vissuto 17 anni, l’abbiamo raggiunto nella sua terra, da cui non riusciva più a partire e ci siamo ritrovati intervistati dalla tv di Youssou N’Dour, molto più che una celebrità da quelle parti, e circondati da ragazzi che volevano soldi da noi, che pensavano che fossimo ricchi, come pensavano dovesse essere ricco Ba, che ora è tornato a Napoli, e vive di musica», racconta il leader di La Maschera.
«Chesta è Napule e non è Africa», canta Colella con l’amico africano e un contorno di strumenti/colori etnici confermato da «Case popolari», che affida al ritornello l’apertura melodica che è l’altra faccia del cd, figlia delle ballad malate di saudade del Pino Daniele di «Lazzari felici», come confessano spesso il violoncello di Michele Arcangelo Caso e il violino di Michele Signore. Scoppi di energia, armonie aperte e contagiose, magari sottolineate da un glockenspiel, da una melodica, dal sax di Sepe, si alternano a dimensioni più intime, ad atmosfere delicate. Il dialetto suona bene, accompagna acquarelli e tranche de vie che non sanno sempre trasformarsi in storie, se si esclude «Palomma ‘e mare», una curiosa storia vera: «Mio nonno era andato a pesca e, tirando su la lenza, aveva catturato un piccione. Non ne voleva sapere niente, mi fece portare l’uccello a casa, perché fosse cucinato in brodo. Ma nonna lo liberò: lui rimase fermo per un giorno prima di volare via. Anni dopo quella storia mi è venuta in mente e mi è servita per raccontare come spesso di fronte alla libertà, all’amore, alla rivoluzione, i limiti ce li mettiamo da soli». In fondo, è lo stesso argomento di «Signora vita» o di «Binario 23» con il suo ladro di sesso, mentre «Serenata» è un ritorno alla tradizione, «Salam aleikum» una concessione ecumenica e «Dimmane come ajere» si fa ballare. La Maschera cresce bene, prima o poi potrebbe mostrare il volto meno buonista della nuova canzone napoletana: ce n’è bisogno. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino