Il rugby lo ha riportato alla vita, ma il rugby ha rischiato di farlo morire ed allora ha detto basta, arrendendosi ai consigli dei medici. Il rugby è stata la splendida...
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Una lunghissima riabilitazione ed un messaggio affidato al mondo non appena tornò a casa: «L’amore è più forte della morte. Pace a tutti» scrisse su Facebook. «Non sento né rabbia né collera, sola una tristezza infinita per tutte le persone morte intorno a me, e altrove in Parigi». Lui orgogliosissimo di essere “banlieusard”. In prima linea dopo gli attentati di Charlie Hebdo. «Ho amici di tutti continenti, mangio halal con i musulmani e kosher con gli ebrei. La banlieue arricchisce, ti fa capire che tutti i popoli possono vivere insieme». Ed il rugby è stato per lui la molla per risalire la china. Il 9 gennaio 2016 il ritorno in campo per il match tra Lyons Piacenza e Mogliano, passato e presente della sua carriera, solo per dare il calcio d’inizio: un gesto simbolico per rappresentare l’inizio della sua seconda vita. Poco prima era stato eletto miglior rugbista del 2015 proprio per riconoscere in lui quelle qualità umane e d’animo che lo hanno spinto a mettercela tutta per tornare a giocare.
Un anno e cinque mesi di lotte e sacrifici, di speranza e determinazione, tanto tempo dedicato a raggiungere un obiettivo che significava ritornare alla quotidianità. Ma alla fine si è dovuto arrendere. Ha riunito tutti alla Club House di Mogliano ed ha detto ai suoi compagni quello che poche ore dopo avrebbe affidato a Fb: «Ho lottato, dal primo giorno in cui mi sono reso conto di cosa era successo. Ho scelto di tornare sul campo contro le raccomandazioni dei chirurghi. Mi hanno assecondato e ho iniziato questo percorso pazzesco, recuperando la forma fisica al di là di tutte le previsioni. Ho 28 anni, il mio corpo è a dir poco distrutto. Due mesi fa mi hanno diagnosticato ulteriori problemi causati dalle cure effettuate per tenermi in vita. Con tutti gli altri danni fisici subiti, non sono cose che posso trascurare ed ho iniziato ad aver paura per la mia vita. Volevo arrivare fino in fondo, raggiungere l’obiettivo che pensavo fosse tornare quello di prima, ma evidentemente non mi ero reso conto di quanto fosse realisticamente impossibile».
Aristide si è arreso ma non abbandona i suoi studi di storia, tecniche ed estetiche del cinema alla Sorbona. La sua storia forse diventerà un film un giorno per raccontare di come il rugby sia stato grande parte del suo ritorno alla vita. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino