Aldo Balestra
Diritto & Rovescio
di

L'esempio di Livatino
e i giudici di oggi

Il delitto del giudice Rosario Livatino. 21 settembre 1990. Sotto, un ritratto del giudice Rosario Livatino
Il delitto del giudice Rosario Livatino. 21 settembre 1990. Sotto, un ritratto del giudice Rosario Livatino
di Aldo Balestra
Martedì 11 Maggio 2021, 13:13 - Ultimo agg. 21:56
4 Minuti di Lettura

«Csm: Livatino è il modello a cui ciascun magistrato ha il dovere di ispirarsi» (Ansa, 6 maggio 2021)
***

«Uomo giusto, avvertiva il peso e l'importanza del “potere” affidato nelle sue mani e viveva la professione con quel rigore, quella saldezza di princìpi e quell'irrinunciabile rispetto della dignità umana che ne hanno segnato la grandezza umana e sprituale». «La credibilità esterna della magistratura nel suo insieme ed in ciascuno dei suoi componenti è valore essenziale in uno Stato democratico, oggi più di ieri. Livatino è il modello a cui ciascun magistrato ha il dovere di ispirarsi per guadagnarsi la fiducia dei cittadini, fonte primaria ed esclusiva della legittimità del suo agire».

Sono le parole giunte dai vertici di Anm e Csm in occasione della beatificazione di Rosario Livatino, avvenuta ad Agrigento domenica 9 maggio. Il giovanissimo giudice (quanto inappropriato, offensivo e abusato è stato, negli anni, l'aggettivo “ragazzino”) fu ucciso ad Agrigento il 21 settembre 1990 - perchè “colpevole” per le Stidde di mafia di diversi provvedimenti di sequestro beni, atti duri e soprattutto inattaccabili - in un agguato di grande efferatezza: il 37enne magistrato, senza scorta (l'aveva rifiutata per non mettere in pericolo altri e non impensierire gli anziani genitori), era solo in auto, cercò di sfuggire ai proiettili, scappò e fu inseguito, raggiunto nei campi e ucciso non senza che riuscisse a pronunciare ai suoi killer la frase: «Io vi perdono».

Quelle dell'Associazione Nazionale Magistrati e del Consiglio Superiore della Magistratura sono parole giuste ma francamente scontate. Perché fanno a cazzotti, apparendo quasi un'ovvia enunciazione di princìpi, proprio nel momento di una nuova (?) e profondissima crisi della magistratura italiana, una cui parte proprio in queste settimane sta offrendo l'ennesima, pessima rappresentazione di sè: veleni, accuse, lotte tra correnti e deliri di onnipotenza. Non era bastato il recente ciclone Palamara, c'è sempre una oscura "loggia" che spunta, in Italia, e quella di cui ora trattasi - e che nelle rivelazioni vede coinvolte anche le toghe - si chiama “Ungheria”. 

Fare di tutta l'erba un fascio non è giusto: c'è un'altra parte di magistratura (“quanta” è opera non semplice da inviduare, ma c'è, certo che c'è) che continua a porre in essere la sua funzione proprio nell'immagine che lo stesso Livatino, giudice al Tribunale di Agrigento, aveva coniato con poche e scolpite parole: «Il giudice deve offrire di sè stesso un'immagine seria, equilibrata, responsabile».

Eppure rischia di essere maggioritario, o comunque appare largamente prevalente, l'agire di quella parte della magistratura che di tale immagine se ne infischia, ormai nemmeno più consapevole della deformazione della propria originaria identità, che si muove nel solco lacunoso e ingiusto delle tardive decisioni, litigiosa nella rivendicazione delle rispettive funzioni, correntizia per indossare la maglietta di gioco dell'appartenenza ideologica e instradarsi nel carrierismo sempre più esasperato (Livatino, ad esempio, non appartenva ad alcuna corrente). E' quella parte di magistratura che condiziona la politica, o se ne fa condizionare, che fa essa stessa “politica", e il cui agire si abbatte su cittadini ignari, attoniti di fronte al motto affisso in ogni aula di tribunale: «La legge è uguale per tutti».

La santità di Livatino, uomo cristianamente ispirato per intima convinzione, il Vangelo tra le mani insieme a codici e pandette, è riassunta nella parola “credibilità” pronunciata dal cardinale Semeraro durante la Beatificazione, ben descritta dalla giornalista Catia Caramelli di Radio 24, studiosa dei fenomeni di moderna santità della porta accanto («Livatino era incorruttibile, i killer lo avevano capito: colpa della sua vita affidata a Dio, della sua fede profonda"), eppure «Rosario rappresenta - dice Don Giuseppe Livatino, postulatore diocesano della causa di Beatificazione - un esempio di verità per chi crede e chi non crede».

L'aspirazione utopica resta quella di una magistratura che non debba più “ridursi” ad invocare il modello di un giudice diventato eroe civile e martire della Chiesa. Che abbia oggi il coraggio di riformarsi, consapevole che la chiusura sic et simpliciter ad ogni cambiamento non è attacco alla sua indipendenza ma moderna e civile garanzia della stessa, che abbia ogni giorno la consapevolezza del limite insito nella sua stessa funzione, che parli per atti giudiziari e processi e non per conferenze stampa, spettacolarizzazioni varii, interviste a raffica e uso della toga per un disinvolto e spregiudicato approdo in politica. L'utopia resta quella di una magistratura veramente indipendente, normale e non normalizzata. L'utopia è quella di un Paese che s'incammini finalmente, non senza fatica ma con decisione, sulla strada di chi non ha bisogno di Santi ed Eroi per essere Stato.
***
«Ex silentio nutritur iustitia». Di silenzio si nutre la giustizia. (San Bonaventura da Bagnoregio, Sulla perfetta vita)

© RIPRODUZIONE RISERVATA