Stato di fiction 

Sabato 8 Giugno 2013, 15:23
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Il problema non è se la moglie di Pascalone ‘e Nola è una icona o meno dell’anticamorra ma il fatto che noi siamo il paese di Cesare Beccaria. E le fiction vengono dopo. Perché la storia di Pupetta Maresca è finita anche in un film di Francesco Rosi «La sfida» e in un saggio di Hans Magnus Enzensberger, proprio perché era letteratura popolare e quindi apologo di un mondo. Il nodo è il come, non il quando e il perché. Il problema è la confusione che governa il nostro paese: di ruoli, mezzi e linguaggi, che viene riassunta perfettamente dallo scrittore americano – che non a caso va in cerca di idee stando a testa in giù – Dan Brown quando conferisce a Roberto Benigni il titolo di dantista, e inviati di tv e giornali non gli spiegano la differenza (che Benigni conosce) tra un lettore e uno studioso di Dante. E si capisce che leggere Vittorio Sermonti risulta difficile nell’era della semplificazione, e prendersi il fastidio di studiare le analisi di John Freccero: pure, ma basta andare su Youtube per trovare le letture dantesche dei due maggiori attori italiani del secolo: Carmelo Bene e Vittorio Gassman, per ascoltare anche senza conoscere la lingua, la musica da orchestra che Benigni rende banda di paese. Io non sono Baricco e non so quando è cominciata la confusione se con la pubblicità nei film che tanto offendeva Fellini o nel fatto che Pietro Citati andasse a citofonarlo di continuo, se con le reti Mediaset, con il Dams, con la foto dell’autore in quarta di copertina, quando si è passati da Dostoevskij a Carlo Conti oppure nel momento che il cibo e gli chef hanno battuto in tre set i filosofi e la religione, quello che so è che il linguaggio è diventato uniforme, le risse sono aumentate e la profondità della critica: abbassata, fino a farsi ufficio stampa. E tutto è divenuto fiction e non quella americana – che ha indipendenza, trama e linguaggio – ma distillata agiografia italiana: e una volta finiti santi, papi, ciclisti si è arrivati al racconto popolare ammantandolo di impegno. Il condominio: è diventato il vero grande romanzo italiano (parole e immagini); il pettegolezzo: strumento di lotta, e sono saltati tutti i ruoli. Tutti contenti. Tutti beati, e anche i peggiori in fondo hanno avuto la loro spiritualità. Il paese del neorealismo ha scelto la finzione, senza nessun canone.
In tv, Fabio Fazio diventa il direttore di un’unica grande casa editrice che le contiene tutte e può rendere famosi e importanti i vivi e i morti, più di Don DeLillo. Le sue parole segnano le classifiche e le pagine culturali, tanto che Gramellini diventa un bestsellerista, Saviano il nuovo Pasolini e gli si permette di infangare Sciascia senza che nessuno possa contraddirlo o di parlare del Messico ignorando Juan Villoro, altro che ‘ndrangheta e Maroni. E non importa che non ci siano lingua e mondo, caratteristiche di uno scrittore, importa la flessibilità del ruolo e l’intercambiabilità  all’occorrenza. E non deve meravigliare che uno dei migliori scrittori italiani, Paolo Nori, venga chiamato a collaborare da Fabio Volo (intanto divenuto un filosofo da festival) e non da un direttore di rete o di giornale. Che non stanno meglio, ci sono intere settimane – quando non si occupano di Sara Tommasi come se fosse Roth – passate a rimpiangere Dio, Mussolini e “Il Mondo” tanto che ormai è come se anche io ci avessi lavorato, che poi è un eufemismo vista tutta la gente che passava a salutare Flaiano e ancora lo racconta. Lo spirito del tempo sta in Riotta e invece dovrebbe ascoltare Buttafuoco, che però non addolcisce ma corrode. Il comandamento era semplificare, abbassare, intrattenere, telenovelarizzare e così Dante è stato affidato a Benigni, la coscienza civile a Saviano, il costume alla Littizzetto e Tortora ridotto a fumetto, e ci siam persi quelli bravi del presente e del passato: come Manganelli, Parise, Landolfi, Bianciardi e Berto, e siamo finiti a preoccuparsi di Paola e Chiara rifiutate dalla musica e mai del fatto che uno come Fulvio Abbate – che con Teledurruti
ha scritto un diario dell’altrItalia – non abbia mai avuto uno spazio tv. E ora che i poeti non cantano delle donne o del paesaggio ma piangono per i pochi commenti su Facebook; ora che il cinema italiano non insegue la verità ma i libri di Veltroni, e non c’è un erede di Rosi ma tanti piccoli registi che non hanno capito Dino Risi e nessuno è cattivo come Monicelli; ora che la Rai si è fatta una grande impresa di pompe funebri con più morti che becchini, più nostalgia che scommessa; ora che le macerie sono ovunque e persino Adorno non appare più rigido e colpevole, ora che tutto è compiuto: vogliamo provare a fare altro? 

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