In tv, Fabio Fazio diventa il direttore di un’unica grande casa editrice che le contiene tutte e può rendere famosi e importanti i vivi e i morti, più di Don DeLillo. Le sue parole segnano le classifiche e le pagine culturali, tanto che Gramellini diventa un bestsellerista, Saviano il nuovo Pasolini e gli si permette di infangare Sciascia senza che nessuno possa contraddirlo o di parlare del Messico ignorando Juan Villoro, altro che ‘ndrangheta e Maroni. E non importa che non ci siano lingua e mondo, caratteristiche di uno scrittore, importa la flessibilità del ruolo e l’intercambiabilità all’occorrenza. E non deve meravigliare che uno dei migliori scrittori italiani, Paolo Nori, venga chiamato a collaborare da Fabio Volo (intanto divenuto un filosofo da festival) e non da un direttore di rete o di giornale. Che non stanno meglio, ci sono intere settimane – quando non si occupano di Sara Tommasi come se fosse Roth – passate a rimpiangere Dio, Mussolini e “Il Mondo” tanto che ormai è come se anche io ci avessi lavorato, che poi è un eufemismo vista tutta la gente che passava a salutare Flaiano e ancora lo racconta. Lo spirito del tempo sta in Riotta e invece dovrebbe ascoltare Buttafuoco, che però non addolcisce ma corrode. Il comandamento era semplificare, abbassare, intrattenere, telenovelarizzare e così Dante è stato affidato a Benigni, la coscienza civile a Saviano, il costume alla Littizzetto e Tortora ridotto a fumetto, e ci siam persi quelli bravi del presente e del passato: come Manganelli, Parise, Landolfi, Bianciardi e Berto, e siamo finiti a preoccuparsi di Paola e Chiara rifiutate dalla musica e mai del fatto che uno come Fulvio Abbate – che con Teledurruti ha scritto un diario dell’altrItalia – non abbia mai avuto uno spazio tv. E ora che i poeti non cantano delle donne o del paesaggio ma piangono per i pochi commenti su Facebook; ora che il cinema italiano non insegue la verità ma i libri di Veltroni, e non c’è un erede di Rosi ma tanti piccoli registi che non hanno capito Dino Risi e nessuno è cattivo come Monicelli; ora che la Rai si è fatta una grande impresa di pompe funebri con più morti che becchini, più nostalgia che scommessa; ora che le macerie sono ovunque e persino Adorno non appare più rigido e colpevole, ora che tutto è compiuto: vogliamo provare a fare altro?
Stato di fiction
Sabato 8 Giugno 2013, 15:23
4 Minuti di Lettura
Il problema non è se la moglie di Pascalone ‘e Nola è una icona o meno dell’anticamorra ma il fatto che noi siamo il paese di Cesare Beccaria. E le fiction vengono dopo. Perché la storia di Pupetta Maresca è finita anche in un film di Francesco Rosi «La sfida» e in un saggio di Hans Magnus Enzensberger, proprio perché era letteratura popolare e quindi apologo di un mondo. Il nodo è il come, non il quando e il perché. Il problema è la confusione che governa il nostro paese: di ruoli, mezzi e linguaggi, che viene riassunta perfettamente dallo scrittore americano – che non a caso va in cerca di idee stando a testa in giù – Dan Brown quando conferisce a Roberto Benigni il titolo di dantista, e inviati di tv e giornali non gli spiegano la differenza (che Benigni conosce) tra un lettore e uno studioso di Dante. E si capisce che leggere Vittorio Sermonti risulta difficile nell’era della semplificazione, e prendersi il fastidio di studiare le analisi di John Freccero: pure, ma basta andare su Youtube per trovare le letture dantesche dei due maggiori attori italiani del secolo: Carmelo Bene e Vittorio Gassman, per ascoltare anche senza conoscere la lingua, la musica da orchestra che Benigni rende banda di paese. Io non sono Baricco e non so quando è cominciata la confusione se con la pubblicità nei film che tanto offendeva Fellini o nel fatto che Pietro Citati andasse a citofonarlo di continuo, se con le reti Mediaset, con il Dams, con la foto dell’autore in quarta di copertina, quando si è passati da Dostoevskij a Carlo Conti oppure nel momento che il cibo e gli chef hanno battuto in tre set i filosofi e la religione, quello che so è che il linguaggio è diventato uniforme, le risse sono aumentate e la profondità della critica: abbassata, fino a farsi ufficio stampa. E tutto è divenuto fiction e non quella americana – che ha indipendenza, trama e linguaggio – ma distillata agiografia italiana: e una volta finiti santi, papi, ciclisti si è arrivati al racconto popolare ammantandolo di impegno. Il condominio: è diventato il vero grande romanzo italiano (parole e immagini); il pettegolezzo: strumento di lotta, e sono saltati tutti i ruoli. Tutti contenti. Tutti beati, e anche i peggiori in fondo hanno avuto la loro spiritualità. Il paese del neorealismo ha scelto la finzione, senza nessun canone.
© RIPRODUZIONE RISERVATA