Napoli non si lascia raccontare: si mostra. E chi la guarda davvero, chi la attraversa, chi ci resta anche solo pochi giorni, spesso se ne innamora. È successo anche ai delegati dell’Unesco, che hanno lasciato la città con parole di meraviglia autentica e la promessa di trasformare l’incontro con la città, un appuntamento fisso. Che Napoli stia vivendo un rinascimento culturale e sociale è sotto l’occhio di tutti. Anche di chi, come Roberto Tottoli, rettore dell’Università degli Studi di Napoli l’Orientale, per lavoro si confronta con realtà e culture internazionali.
Rettore Tottoli, Napoli capitale della cultura. È solo una utopia o qualcosa di più concreto?
«Direi che è molto più di una suggestione. Negli ultimi dieci anni è diventata un riferimento vero e proprio. Pensi che Marsiglia, in Francia, viene chiamata la “Napoli di Francia”. Napoli è ormai un brand riconoscibile, e quello culturale è senza dubbio uno degli aspetti che l’ha resa più forte».
Un marchio composto da cosa?
«Napoli è un concetto ampio. Prima di tutto ha un patrimonio paesaggistico e storico immenso. Il Golfo e il Vesuvio sono una delle immagini più iconiche al mondo, ma questo c’è da sempre. Così come sappiamo bene che c’è un patrimonio storico unico, pienamente o in corso di valorizzazione. Ma quello che la distingue, a mio modo di vedere - e lo dico ormai da napoletano, perché la vivo da venticinque anni sebbene non originario di qui - è una realtà viva e partecipata. C’è un popolo che vive questi luoghi, che non sono diventati un presepe patinato esclusivamente per turisti. Ecco, questa è un’altra grande forza di Napoli. La differenza, rispetto ad altre città, la fa la vita che ancora si respira per strada. E continuo a stupirmi per questa vitalità quotidiana. Qui i luoghi non sono diventati uno sfondo per selfie, sono ancora pieni di persone vere. E questo si sente».
È questa la chiave della trasformazione degli ultimi anni?
«Secondo me sì. C’è stato un grande lavoro di riqualificazione, ma senza svuotare i quartieri, senza espellere i residenti. Almeno per ora. In molte città, purtroppo, la bellezza è diventata esclusiva, e chi ci abitava è stato spinto fuori. A Napoli no. Ancora oggi, il centro storico è vissuto da chi ci vive davvero. È questo che affascina i turisti italiani e stranieri: vedere una città bella, sì, ma anche vera. Non una scenografia, ma un luogo pulsante».
Come si fa a non perdere questo equilibrio?
«Governando con intelligenza i flussi turistici e lavorando per evitare lo spopolamento. È difficile, certo, ma è una sfida che vale la pena affrontare. Altrimenti rischiamo di fare la fine di quei centri storici trasformati in vetrine, svuotati della loro anima, come sta accadendo a Torino, Milano, Venezia».
Intanto, i delegati dell’Unesco vanno via incantati, tra meno di due anni ospiteremo la Coppa America e arriverà un altro tipo di turismo. Tutto questo, fino a poco tempo fa, sembrava impossibile: cosa è cambiato?
«Molto. Io ricordo i primi anni qui: nessuno dei miei amici del Nord veniva a trovarmi. Ora devo organizzare i turni tra Pasqua, estate e Capodanno. È cambiata la percezione della città. I trasporti hanno inciso parecchio: l’alta velocità, i collegamenti aerei... Ma la cosa più importante è che si è rovesciata l’immagine di Napoli come città pericolosa. Certo, la cronaca esiste, ma io non ho mai sentito questa città più insicura di altre grandi metropoli italiane. Anzi, la presenza di più turisti ha allargato le zone vissute, le ha rese più accessibili. E questo ha cambiato tutto».
Si scopre solo ora quanto Napoli sia anche vivibile, quindi?
«Sì. Oggi uno prende il treno e in un’ora e mezza è qui. Si ferma per due giorni, cammina, mangia, ascolta i dialetti, guarda le facce. E capisce che Napoli non è solo bella: è generosa. Ma trovare dove dormire è già complicato, e questo dà la misura del cambiamento».
Questo slancio positivo ha trovato una politica capace di accompagnarlo, al di là dei colori?
«Credo di sì. Quando c’è un obiettivo comune, come il benessere della città, anche le differenze politiche possono diventare secondarie. Poi c’è un altro valore aggiunto: Napoli, e la Campania in generale, è una terra giovane, con molta energia, molta voglia di fare. Ci sono stati investimenti, interesse da parte delle imprese, dei grandi gruppi industriali. E questo crea un circuito virtuoso: si porta lavoro, arrivano persone, si costruiscono possibilità. E alla fine ci guadagnano tutti, se si lavora bene».
Ma Napoli è pronta per restare se stessa, senza farsi travolgere dal boom?
«Dipende da noi. Se sapremo proteggere ciò che la rende unica — i quartieri vissuti, le relazioni vere, la città quotidiana — allora sì. Se invece inseguiremo un’idea di città da cartolina, allora rischieremo di perderla. La scommessa è questa: continuare a essere Napoli, non un souvenir».