Don Diana, il mandante scarcerato;
Spinillo: «Lezione per chi volle la morte»

Don Diana, il mandante scarcerato; Spinillo: «Lezione per chi volle la morte»
di Francesco Vastarella
Sabato 31 Luglio 2021, 08:15 - Ultimo agg. 19:36
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Monsignor Angelo Spinillo ha saputo della liberazione di Nunzio De Falco, uno dei mandanti dell'uccisione Don Giuseppe Diana? È gravemente ammalato, l'hanno mandato a casa a Villa Literno.
«Certo. Ho saputo».

La sorella e il fratello di don Diana sono addolorati e indignati.
«Comprensibile. È un dolore che si rinnova nonostante siano passati tanti anni. Hanno subito l'oltraggio di un delitto. Come si fa a dimenticare? Un dolore non passa facilmente. Nonostante la forza e la Fede di questa famiglia ci sono momenti in cui l'indignazione prende il sopravvento. Io però, da vescovo di Aversa, non posso ragionare che con le stesse parole che, per Fede e per amore della sua terra, avrebbe usato don Giuseppe».

Che cosa avrebbe detto don Giuseppe ?
«Senza voler entrare nel significato profondo del perdono cristiano e della redenzione quando c'è, dico che la legge deve essere sempre educativa nella fermezza delle sue condanne e delle sue scelte.

La legge educa con la pena e ancor di più educa con la sua umanità quando è prevista dalle norme».

In che modo si riesce a parlare di umanità nel caso di un delitto atroce come l'uccisione di un sacerdote innocente?
«Attenzione, non sto parlando di facili perdoni. Io interpreto la scelta della legge applicata nei confronti di uno degli assassini di don Diana come una doppia condanna per quest'uomo che umanità non ha mostrato e ha anzi negato con i suoi gesti».

Lo mandano a casa a morire come un cittadino che non ha commesso reati e lei dice che è una doppia condanna.
«A casa quest'uomo condannato per un delitto atroce non è andato come un cittadino normale. È la giustizia che gli ha inferto una doppia condanna perché la legge mostra e impone l'umanità che lui non ha usato nei confronti della sua vittima, il mio confratello don Giuseppe Diana. Appunto per questo è un segnale forte, educativo nei confronti di tutti. Fermezza della condanna non vuol dire che la legge debba rinunciare nei momenti opportuni al dovere di umanità. Guai se non fosse così, lo dico prima di tutto da uomo di Fede. Credo che quest'uomo, se cosciente, debba avvertire ancor di più il peso del male che ha compiuto e magari redimersi, chiedere perdono, cosa che finora non ha fatto scatenando il dolore della famiglia di don Giuseppe, che oggi si manifesta in questa forma di indignazione che va compresa. Insomma, a fronte del rispetto che De Falco non ha avuto per la società, la Giustizia gli concede un respiro umano nel momento più difficile della sua vita terrena. Dinanzi al disorientamento o addirittura al turbamento di questa scelta dei giudici dico: bisogna cogliere il senso alto della legge prima ancora del suo dettato. La legge non ne esce indebolita, anzi, si ravviva. È la forza della civiltà contro la barbarie del crimine».

Il detenuto De Falco è tornato nella terra di cui è figlio e dove ha alimentato negli anni passati un male che continua a tormentare questa società. Non crede che averlo rimandato a casa possa essere interpretato come un cedimento, come un darla vinta a chi ha ucciso e si è procurato profitti con il crimine?
«Questo rischio esiste, potrebbe essere interpretato come una forma di impunità, in extremis, da parte di chi tanto male e dolore ha provocato, come se si trattasse di una debolezza del sistema della Giustizia. Io credo che questa è una apparenza, non una sostanza dei fatti: a casa il condannato è tornato solo in un momento estremo e di dimostrata malattia. È esattamente questo il segnale che arriva alla società, soprattutto agli uomini e alle donne che in passato o ancora oggi alimentano la criminalità organizzata in tutte le sue forme. Una società che non ha ancora completamente maturato questi processi mi preoccupa molto. Ma non credo che si possa generalizzare. Altrimenti...».

Altrimenti?
«Altrimenti ci sarebbe da disperarsi dopo tanto impegno per la legalità».

Si riferisce ai tanti movimenti che sono sorti sulla scia del sacrificio e dell'esempio di don Diana?
«Esattamente. Io credo che bisogna insistere su questo cammino, anzi incrementare gli sforzi proprio nel rispetto di chi ha sacrificato la vita per i valori alti della fede e della legalità».

Ci sono stati momenti in cui anche la Chiesa sembrava avesse ceduto il passo nel riconoscimento della figura di don Diana. E ora?
«Don Diana è stato un esempio per tutti. Qualche giorno fa si è insediata e ha cominciato a lavorare la commissione composta da quattro sacerdoti che prepara l'inchiesta diocesana sulla vita e le virtù di don Giuseppe. È una procedura secondo i canoni della Chiesa per l'esame di dati, testimonianze, tempi e circostanze dei fatti accaduti. Si chiama inchiesta sulle virtù in termine ecclesiastico. Un modo per vedere se ci sono elementi per andare oltre e dare il giusto riconoscimento a un martire della Fede. Sono quattro giovani sacerdoti che neppure hanno conosciuto don Giuseppe e che quindi avranno una valutazione oggettiva, che potrebbe portare anche più lontano nel riconoscimento del valore e nell'esempio testimoniato con la vita».

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