Morto Domenico De Masi, addio al sociologo dell’ozio creativo

Docente universitario, si occupò della realtà industriale di Bagnoli e fu consigliere di Grillo e del M5S

Domenico De Masi
Domenico De Masi
di ​Generoso Picone
Sabato 9 Settembre 2023, 23:54 - Ultimo agg. 11 Settembre, 07:36
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Se un titolo di un saggio può condensare il nucleo dell’attività di ricerca e di pensiero svolta in un lungo e ricco percorso di vita, per Domenico De Masi – scomparso ieri all’età di 85 anni per un male fulminante che aveva scoperto il 15 agosto scorso mentre era nella sua amata Ravello – questo è La felicità negata. Perché nel volume pubblicato l’anno scorso da Einaudi, l’ultimo dell’intensa bibliografia del teorico dell’ozio creativo, si ritrovano i temi fondanti che hanno caratterizzato il suo impegno, il paradigma portante - avrebbe detto – di un’elaborazione intellettuale tesa a sciogliere il nodo per molti versi contraddittorio tra progresso tecnologico e felicità individuale: una questione con cui aveva iniziato a fare i conti oltre mezzo secolo prima analizzando le declinazioni del lavoro e le articolazioni della società e che riversava la sua inquietudine nello scenario del mondo ormai globalizzato e postindustriale, segnato da «la sfida ansiogena della complessità». 

Sgomberando subito il campo dalle suggestioni mitologiche di una perduta età dell’oro alla Esiodo, dalle severe considerazioni critiche di Pasolini che rimandavano alla serena convivialità contadina distrutta dalla modernizzazione e dalle reminiscenze della fabbrica pedagogica di Adriano Olivetti, De Masi sostiene con forza che «questo in cui viviamo non è il migliore dei mondi possibili ma è certamente il migliore dei mondi esistiti finora». Il punto, allora, era un altro: che «non c’è progresso senza felicità e non si può essere felici in un mondo segnato dalla distribuzione iniqua della ricchezza, del lavoro, del potere, del sapere, delle opportunità e delle tutele. Quest’umana disuguaglianza non avviene a caso ma è lo scopo intenzionale e l’esito raggiunto di una politica economica che ha come base l’egoismo, come metodo la concorrenza e come obiettivo l’infelicità». 

Per ribaltare lo schema è necessario – proseguiva – recuperare le intuizioni e le lezioni di colori quali si sono sforzato a indicare le strada per liberare l’essere umano da ogni ingranaggio.

Per restituirlo, proiettandolo nel futuro, a una condizione in grado di assicurare almeno le basi della felicità praticabile. Di quell’ozio creativo che è diventata una definizione del lessico giornalistico prima ancora che scientifico e che al di là delle banalizzazioni disegna l’orizzonte di un’utopia verso cui continuare a proiettarsi. «Leggeri come una rondine, non come una piuma», recita la citazione di Paul Valery scelta da esergo per il suo sito web. 

Il punto di approdo raggiunto da De Masi contiene in sé gli elementi di una riflessione cominciata dagli anni ’60. Allora aveva declinato la propria idea di immaginazione sociologica verificandone i tratti in indagini e verifiche che dalla realtà meridionale e soprattutto napoletana avevano spaziato al Sudamerica, al Brasile dove la sua parola ben ascoltata da Lula da Silva si era imposta nell’autorità di un’istanza politica. Da La negazione urbana del 1971 a I lavoratori dell’industria italiana del 1974, da L’emozione e la regola del 1990 a Sviluppo senza lavoro del 1995, da La fantasia e la concretezza del 2003 a Lavorare gratis, lavorare tutti del 2017 a Smart working. La rivoluzione del lavoro intelligente del 2020 c’è un filo coerente che dettaglia un itinerario: è la tecnologia che può allargare il tempo-vita e ridurre il tempo-lavoro e quindi incentivare i mestieri creativi, le pratiche immateriali, la cultura, il turismo, la conoscenza, lo svago. Un paradigma che muoveva dal pensiero di Alexis de Tocqueville, di Karl Marx, dei filosofi francofortesi, di Frederick Taylor, di Daniel Bell, di André Gorz, di Alain Touraine, di Agnes Heller, elaborandone i materiali in maniera originale e aggiornata. Fino a cogliere il senso di utilità di innovazioni come l’intelligenza artificiale. 

 

Nato il primo febbraio del 1938 a Rotello, in provincia di Campobasso, trasferitosi con la famiglia all’età di 8 anni nel Sannio a Sant’Agata dei Goti, studente liceale a Caserta, Domenico De Masi aveva sviluppato con Napoli e la Campania un rapporto umano e professionale, sentimentale e politico di estrema intensità: dopo la laurea in Giurisprudenza conseguita all’università di Perugia con una tesi in Storia del diritto aveva diretto i suoi interessi verso la Sociologia del lavoro specializzandosi a Parigi, nel 1968, auspice Alain Touraine e, al ritorno in Italia, presso la Federico II avviò la sua carriera accademica come assistente, raffinando i suoi studi da ricercatore al Centro Nord e Sud guidato da Giuseppe Galasso e collaborando all’omonima rivista governata da Francesco Compagna. In quegli anni, ai primi dei ’60, si era misurato con la realtà industriale di Bagnoli, con la presenza e il ruolo svolto dai gruppi informali e dai sindacati. Assieme a Cesare de Seta aveva intessuto rapporto sugli argomenti dell’architettura e dell’urbanistica, a Napoli era tornato a insegnare - dopo Milano e Sassari – alla Federico II, all’Orientale, ancora all’ateneo principale per trasferirsi quindi alla Sapienza di Roma dove aveva terminato la sua carriera alla cattedra di Sociologia del lavoro e da preside della facoltà di Scienze della comunicazione. Napoletani i suoi cari amici, tra i quali Raffaele La Capria, assieme a Lina Wertmuller e Renzo Arbore: perché comunque occorre mantenere la leggerezza della rondine. 

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È stato uno dei riferimenti teorici del Movimento 5 Stelle, consigliere di Beppe Grillo, docente alla Scuola di politica del «Fatto quotidiano» e fautore di un’alleanza a sinistra. «La vera battaglia oggi non è più tra sinistra e destra, ma tra socialdemocrazia e neoliberismo», sottolineava. 

Ravello era il suo luogo dell’anima. Qui era stato assessore alla Cultura tra il 1994 e il 1995, fondando e dirigendo per quattro anni la «Scuola internazionale di management culturale» e allestendo dal 2002 al 2010 i programmi della Fondazione Ravello, rilanciando il Festival e promuovendo la costruzione dell’auditorium intestato poi a Oscar Niemeyer, il grande architetto suo amico che aveva regalato il progetto. L’intesa con gli amministratori locali si era però incrinata e la collaborazione purtroppo interrotta. Il male lo ha raggiunto lì, un segno del destino. 

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